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16 Gennaio 2023

GIHTAD (2023) 16:1

ARTICOLO ORIGINALE

Osservatorio sull’aderenza alla terapia ipolipemizzante nei pazienti ad alto rischio cardiovascolare

Observatory of adherence to lipid lowering therapy in patients with high cardiovascular risk

Alfonso Bellia1,2, Loredana Alletto2, Marcello Arca3,4, Lucio Corsaro2, Marina Davoli5, Alessandro Mugelli6, Tiziana Nicoletti7, Concetta Maria Vaccaro2,8

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1 Dipartimento di Medicina dei sistemi, Università di Roma Tor Vergata
2 Health Web Observatory, Roma
3 Medicina Interna Sapienza Università di Roma
4 Società Italiana per lo Studio dell’Aterosclerosi (SISA)
5 Dipartimento di Epidemiologia del Servizio Sanitario Regionale. Regione Lazio
6 Università di Firenze – Past President Società Italiana di Farmacologia
7 Coordinamento nazionale delle Associazioni dei Malati Cronici e rari (CnAMC), Roma
8 Area welfare e Salute, Fondazione CENSIS

Indirizzo per la corrispondenza:
Alfonso Bellia
Dipartimento di Medicina dei Sistemi, Università di Roma “Tor Vergata”
Health Web Observatory
e-mail: bellia@med.uniroma2.it


Abstract

Le dislipidemie aumentano il rischio di malattie cerebro e cardiovascolari (CV) legate alla aterosclerosi in tutto il mondo. Si stima che esse causino 2,6 milioni di morti all’anno (4,5% del totale). La terapia ipolipemizzante assume quindi un ruolo cruciale nel ridurre l’incidenza di eventi cerebro e CV. L’applicazione appropriata della terapia si confronta con unmet needs che hanno un impatto sulla cura della dislipidemia nel singolo paziente e sulla prevenzione cardiovascolare. La scarsa aderenza alla terapia è tra gli unmet needs più rilevanti poiché rappresenta la principale causa di non efficacia della terapia ipolipemizzante, con conseguenze sia sul raggiungimento e mantenimento dei target di colesterolo a bassa densità (C-LDL) sia sulla prevenzione degli eventi cerebro e CV.

Obiettivo dell’Osservatorio è stato quello di approfondire il tema dell’aderenza alla terapia ipolipemizzante, integrando valutazioni cliniche ed epidemiologiche, grazie al contributo del Board Multistakeholder, con l’analisi del punto di vista del paziente, attraverso lo studio della comunicazione online sulle dislipidemie che ne ha messo in luce le molte ombre ed incertezze.

L’Osservatorio ha fatto emergere spunti di riflessione ed intervento utili a tenere alta l’attenzione sulle dislipidemie ed il loro trattamento, per contribuire ad aumentare i livelli di informazione sulle dislipidemie ed incrementare il dibattito nell’opinione pubblica e tra i principali stakeholder.

English abstract

Dyslipidemias increase the risk of atherosclerotic cerebro and cardiovascular (ASCV) diseases and are estimated to cause approximately 2.6 million deaths per year worldwide (4.5% of the overall mortality). Lipid-lowering therapies play a crucial role in reducing incidence of ASCVD events. However, widespread application of lipid-lowering therapies in the general population comes up against a number of unmet needs broadly impacting on the treatment of dyslipidemia of the single patient and on the cardiovascular prevention. The poor adherence to therapies is among the most relevant unmet needs, representing the main causes of reduced efficacy of lipid-lowering therapies in terms of both achievement of low-density cholesterol (C-LDL) targets and prevention of cardiovascular accidents.

Thanks to the contribution of a Multistakeholder Board, the objective of the Observatory was to investigate the issues of the adherence to lipid-lowering therapies, by integrating clinical and epidemiological assessments with analysis of the patient’s point of view, highlighted by the study of online communication on dyslipidemias, which highlighted its many shadows and uncertainties.

The Observatory has provided some ideas to reflect on and inspire interventions, aimed at keeping attention on dyslipidemias and relative treatments, in order to increase the levels of information on dyslipidemias and inspire public debate among involved stakeholders.

Keywords: cardiovascular risk; prevention; lipid lowering therapy; medication adherence

Introduzione

Le dislipidemie, e in particolar modo l’ipercolesterolemia, presentano a tutt’oggi rilevanti questioni aperte che rendono il tema di straordinaria attualità e meritevole di costante attenzione e approfondimento.

Ciò diventa ancora più cogente considerando sia la prevalenza a livello globale sia il rischio di eventi cardiovascolari a cui questa condizione clinica espone1,2.

Ed anche l’impegno da parte della comunità scientifica, attenta ad un continuo aggiornamento delle linee guida ed alla periodica revisione dei target, solo marginalmente riesce a dare un “segnale forte” su come approcciare questa tanto silente quanto subdola patologia. In effetti le conseguenze dannose dell’ipercolesterolemia, soprattutto nei pazienti che hanno già avuto un evento cardiovascolare, sono diffusamente documentate dalla letteratura scientifica, nonché da una consolidata pratica clinica3,4.

Va aggiunto inoltre che l’ampia disponibilità di opzioni terapeutiche, non ha facilitato fino ad ora una reale presa di coscienza sul valore e sull’impatto dell’ipercolesterolemia, generando, anzi, una diffusa disinformazione. È ampio dunque lo spazio per riportare il tema ad una più appropriata centralità, anche alla luce della disponibilità di nuovi farmaci, da poco o in procinto di arrivare sul mercato, e della necessità di un loro utilizzo appropriato.

L’Osservatorio sull’aderenza alla terapia ipolipemizzante nei pazienti ad alto rischio cardiovascolare, per quanto premesso, si è posto l’obiettivo di approfondire, nella popolazione italiana, due ambiti che influenzano direttamente gli esiti del trattamento ipolipemizzante e lo stato di salute futura del paziente:

– il livello di consapevolezza, ovvero la percezione del rischio, dell’importanza del controllo della dislipidemia come condizione necessaria per ridurre il rischio cardiovascolare. Questo tema, già rilevante per i pazienti in prevenzione primaria e per i pazienti ad alto rischio che includono alcune categorie di malati cronici tra cui gli ipertesi e i diabetici, magari anche con risultati terapeutici sub-ottimali, diventa irrinunciabile per i pazienti che hanno già avuto un evento cardiovascolare e che quindi si trovano nella condizione di più elevato rischio cardiovascolare.

– l’appropriatezza nella gestione terapeutica, ovvero l’effetto sulla compliance, che ha delle implicazioni molto importanti su uno degli “unmet needs” della terapia ipolipemizzante quale è l’aderenza terapeutica. La scarsa aderenza terapeutica rappresenta infatti la principale causa di non efficacia delle terapie farmacologiche di lungo termine, è associata a un aumento degli interventi di assistenza sanitaria e del rischio di ospedalizzazione e di complicanze associate alla malattia vascolare, con un impatto sulla morbosità e sulla mortalità, sull’aspettativa di vita in buona salute, nonché sui costi per il sistema sanitario.

A completamento dell’introduzione è opportuno fornire un inquadramento epidemiologico, utile a dimensionare la portata e l’impatto delle dislipidemie nell’ambito del sistema salute.

I dati epidemiologici sulle dislipidemie, pubblicati nel 2019 dal Global Health Observatory dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), certificano che le dislipidemie aumentano il rischio di malattie cardiovascolari e ictus in tutto il mondo. Complessivamente, si stima che le dislipidemie causino 2,6 milioni di morti all’anno (4,5% del totale) e 29,7 milioni di anni di attesa di vita corretta per disabilità (Disability Adjusted Life Year o DALYS)5. In tutta Europa la dislipidemia ha un impatto rilevante sia sulla salute che sugli aspetti economici correlati. Un dato significativo ai fini della governance di questa area terapeutica è che la prevalenza di dislipidemie risulta aumentata in base al livello di reddito medio di ciascuna nazione. Le percentuali risultano infatti più che raddoppiate nella popolazione adulta dei paesi a più alto reddito rispetto a quelli a basso reddito. Si tratta quindi di una problematica clinica di grande impatto sulla mortalità cardiovascolare della popolazione, soprattutto nei paesi industrializzati e con stili di vita occidentali. Proprio per la dimensione e l’impatto della problematica clinica, una prima esigenza da sottolineare è il riconoscimento dell’ipercolesterolemia e la sua gestione attenta nella prevenzione primaria delle malattie CV. I fattori di rischio in grado di favorire la comparsa delle malattie CV su base ischemica sono molteplici: l’ipercolesterolemia, l’ipertensione, il diabete, il fumo di sigaretta, la sedentarietà, l’obesità viscerale, l’alimentazione troppo ricca di calorie e grassi animali6. La diversa combinazione di questi fattori in un individuo contribuisce a definire quello che viene chiamato il rischio cardiovascolare globale (RCVG). Il RCVG viene determinato usando le seguenti metodologie, come di seguito analizzate: l’algoritmo SCORE7 descrive, in un soggetto senza manifestazioni cliniche di malattia CV (prevenzione primaria), la probabilità di andare incontro ad un evento ischemico “fatale” nell’arco nei successivi 10 anni e viene espresso come basso/moderato (< 5%), alto (5-10%), molto alto (>10%). Nell’algoritmo CUORE8, che descrive invece la probabilità di andare incontro ad un evento ischemico “fatale” e “non fatale”, il rischio viene definito basso se corrisponde ad una probabilità di ammalarsi <10%, moderato se compreso tra il 10-20%, alto se >20% e molto alto se > 40%. Occorre peraltro sottolineare come la presenza di un danno d’organo subclinico (es. l’ipertrofia ventricolare sinistra o l’aterosclerosi carotidea o la ridotta funzione renale) aumenti, in ogni caso, il RCVG. Un recente studio Italiano ha verificato che in una coorte di circa 7000 soggetti di età compresa tra 49 e 70 anni di età seguiti in ambito di Medicina Generale, il 15,1% poteva essere definito a rischio CV alto e il 19,9% a rischio molto alto secondo l’algoritmo CUORE8. Traslando questi dati alla popolazione generale Italiana, significa che 4,68 milioni di soggetti sono a rischio elevato e 6,17 milioni a rischio molto elevato9. Linee guida nazionali e internazionali hanno identificato dei valori ottimali di C-LDL per ogni livello di RCVG, definendo così il concetto di ipercolesterolemia come quello rappresentato da valori di C-LDL superiori a quelli considerati ottimali per ciascun livello di rischio. In relazione alle indicazioni contenute nelle attuali Linee Guida per la gestione delle dislipidemie, prodotte congiuntamente dall’European Society of Cardiology (ESC) e dall’European Atheroslerosis Society (EAS) (linee guida ESC/EAS) pubblicate nel 2019, vengono considerati valori di C-LDL non ottimali (e quindi tali da indentificare una condizione di ipercolesterolemia) quelli >100 mg/dl nei soggetti ad alto rischio e >116 mg/dl nei soggetti a rischio moderato o basso secondo l’algoritmo SCORE7. Riguardo la situazione dell’Italia, l’Osservatorio Epidemiologico Cardiovascolare Health Examination Survey (OEC/HES) ha rappresentato una vasta indagine epidemiologica condotta negli anni 2008-2012 in 23 comuni di tutte le regioni Italiane9. In totale sono stati esaminati oltre 9000 individui di età tra 25 e 79 anni. Nei soggetti tra i 34 e 75 anni la prevalenza di ipercolesterolemia (≥240 mg/dl) è stata del 34% negli uomini e del 36% nelle donne. Nella fascia di età 35-69 anni, sono risultati a rischio elevato (≥5% SCORE, ≥20% CUORE) l’8.5% degli uomini e l’1.1% delle donne. La grande dimensione epidemiologica della ipercolesterolemia dà ragione del perchè si senta la necessità di avere disponibili e continuamente riviste linee guida sulla diagnosi e sul trattamento di questa patologia. Un trattamento medico adeguato riduce infatti le C-LDL e di conseguenza l’incidenza di eventi clinici cardiovascolari (morbidità e mortalità) con i relativi costi socio-sanitari. Vale la pena, a tal proposito, sottolineare che le ultime linee guida sulla gestione delle dislipidemie sono state aggiornate dalle Società Europea di Cardiologia e della Aterosclerosi (ESC/EAS) nel 2019, sulla base delle più recenti evidenze che hanno comportato la rivisitazione dei nuovi target per C-LDL, l’aggiornamento della stratificazione del rischio specialmente per i pazienti a rischio alto e molto alto, e l’integrazione con le nuove raccomandazioni sulla gestione dei pazienti e delle terapie7. La terapia ipolipemizzante ha dunque un ruolo cruciale nella gestione delle dislipidemie. Il Rapporto OsMed 2019 dell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) fornisce un aggiornamento sul consumo delle terapie ipolipemizzanti disponibili in Italia10:

• nel 2019 si conferma il trend di crescita del consumo degli ipolipemizzanti, con un valore di 97,1 dosi definite giornaliere (DDD) (pari all’8,4% del consumo a carico SSN), in aumento del 4,7% rispetto al 2018 e del 23% rispetto al 2014;

• circa l’82% delle prescrizioni della categoria degli ipolipemizzanti è rappresentato dalle statine (79,2 DDD), in aumento del 2,2% rispetto all’anno precedente; importanti incrementi si osservano anche per l’ezetimibe, da sola o in associazione (+25,6%), e soprattutto per gli inibitori proprotein convertasi subtilisina/kexin tipo 9 (PCSK9) (+87,0%), quest’ultimo determinato principalmente da evolocumab (+83% delle dosi); le statine sono anche la categoria in cui si osservano le maggiori differenze regionali (min-max 52-91 DDD);

• nel 2019 un cittadino su dieci ha ricevuto almeno una prescrizione di ipolipemizzanti con un marcato trend in crescita associato all’età, con circa il 40% dei soggetti nella fascia ≥75 anni con almeno una prescrizione; gli uomini hanno un maggior livello d’uso ed esposizione agli ipolipemizzanti in tutte le fasce d’età;

• metà degli utilizzatori è stato trattato per un periodo inferiore ai sette mesi senza particolari differenze geografiche; inoltre, un utilizzatore su dieci ha ricevuto una sola prescrizione nel corso dell’anno.

Le evidenze scientifiche, si legge nello stesso Rapporto OsMed, riportano chiaramente che queste terapie per la prevenzione degli eventi cardiovascolari dovrebbero essere assunte per periodi prolungati e senza interruzione; questi dati di consumo dimostrano al contrario che vi sono ancora notevoli aree di miglioramento della pratica clinica. È opportuno citare, a tal riguardo, un recente studio retrospettivo sulla popolazione generale Italiana11, che si è posto l’obiettivo di analizzare la continuità alla terapia ipolipemizzante nei pazienti a rischio cardiovascolare molto alto perché in prevenzione secondaria, per i quali il trattamento farmacologico assume una grande importanza per prevenire l’occorrenza di ulteriori eventi CV e quindi per il miglioramento della qualità di vita. Questo studio ha analizzato un campione rappresentativo della popolazione italiana afferente alla Medicina Generale, per un periodo di follow-up a tre e sei mesi avvalendosi dell’HealthSearch IMS HealthLongitudinalPatient Database, il più ampio database di medicina generale in Europa. La continuità terapeutica, che è una questione aperta per le terapie a lungo termine tipiche delle patologie croniche, ha una importanza ancora maggiore nella gestione dell’ipercolesterolemia in quanto è stato dimostrato che i pazienti affetti da patologia cardiovascolare che interrompono il trattamento hanno un incremento nel rischio di mortalità a confronto con coloro che assumono regolarmente la terapia. Nonostante ciò, lo studio ha dimostrato un basso livello di aderenza al trattamento ipolipemizzante dopo tre e sei mesi di follow-up (rispettivamente del 61% e del 55%), proprio tra i pazienti che hanno già avuto un evento cardiovascolare maggiore. Le ragioni di ciò sono sicuramente molteplici, andando dalla scarsa percezione (nel paziente ma talvolta anche nel medico prescrittore) dei benefici terapeutici, alla preoccupazione di eventuali eventi avversi o della loro reale comparsa.

Metodi

L’obiettivo primario dell’Osservatorio è stato quello di raccogliere elementi utili e cogliere argomentazioni valide per avviare un’operazione culturale volta ad elevare in primis il livello di consapevolezza e di attenzione sull’ipercolesterolemia ed il suo appropriato trattamento, e quindi a contribuire ad interrompere quel circolo vizioso a causa del quale l’inadeguata rilevanza al problema genera inerzia terapeutica e scarsa aderenza.

Il percorso adottato dall’Osservatorio ha previsto un primo “punto di osservazione” che, grazie al contributo di un selezionato Board Tecnico Scientifico, si è posto l’obiettivo di focalizzare le questioni ancora aperte, unitamente alla loro consistenza epidemiologica e clinica, nell’ambito dell’aderenza alla terapia ipolipemizzante nel paziente ad alto rischio CV.

Il Board Tecnico Scientifico è stato costituito da:

• Loredana Alletto, Senior Project Leader Health Web Observatory, Roma

• Marcello Arca, Professore di Medicina Interna Sapienza Università di Roma – Presidente Società Italiana per lo Studio dell’Aterosclerosi

• Alfonso Bellia, Professore Associato di Endocrinologia Dipartimento di Medicina dei sistemi, Università di Roma Tor Vergata – Consigliere Health Web Observatory, Roma

• Lucio Corsaro, Founder & Advisor BHAVE – Vice Presidente Health Web Observatory

• Marina Davoli, Direttore Dipartimento di Epidemiologia del Servizio Sanitario Regionale. Regione Lazio

• Alessandro Mugelli, Professore Emerito di Farmacologia, Università di Firenze – Past President Società Italiana di Farmacologia

• Tiziana Nicoletti, Responsabile Coordinamento nazionale delle Associazioni dei Malati Cronici e rari (CnAMC), Roma

• Concetta Maria Vaccaro, Responsabile Area welfare e Salute, Fondazione CENSIS – Presidente Health Web Observatory, Roma.

Gli esperti del Board hanno prodotto specifici approfondimenti, suddivisi in tre aree tematiche, al fine di fornire un quadro complessivo dello stato dell’arte, con specifico riferimento all’ipercolesterolemia ed al suo trattamento:

Colesterolo e malattie cardiovascolari: il “burden of disease”

Adesione e persistenza al trattamento ipolipemizzante: relazione con la tollerabilità ed il successo terapeutico

L’aderenza alla terapia con statine in pazienti ad alto rischio CV.

Queste tre aree tematiche, partono dall’ analisi clinica per proseguire con una valutazione di merito sul ruolo causale tra ipercolesterolemia e malattia cardiovascolare, per arrivare alla dimensione del riconoscimento del “valore” del trattamento e della rilevanza della “persistenza” in terapia. Gli approfondimenti per area tematica sono cruciali nella composizione dell’Osservatorio, in quanto arricchiscono il bagaglio di conoscenze e di atteggiamenti rispetto al problema dell’aderenza alla terapia ipolipemizzante nelle sue differenti sfaccettature; i singoli autori hanno riportato sia dati di letteratura che originali, nonché esperienze professionali di pratica clinica volte ad aumentare i livelli di informazione sulle dislipidemie ed incrementare il dibattito nell’opinione pubblica e tra i principali stakeholder. Con il contributo del Board Tecnico Scientifico sono stati inoltre identificati e condivisi gli elementi propedeutici (parole chiave e clusters) alla realizzazione del secondo “punto di osservazione”, ovvero l’approfondimento dell’informazione sulla malattia, la sua percezione sociale, attraverso l‘analisi della comunicazione online, utilizzando lo strumento del Social Media Listening (SML).

Il SML infatti ha analizzato, nel periodo di osservazione che va da Aprile 2020 a Marzo 2021, quanto accade sul web sul tema del colesterolo e dintorni, con l’obiettivo di ricostruire i livelli di informazione, i tratti essenziali della immagine della malattia diffusi nel corpo sociale, i dubbi, le certezze, le scelte terapeutiche più consuete, i temi e gli aspetti più problematici al centro dell’attenzione. Dopo una prima selezione delle parole chiave base (Ipercolesterolemia, Dislipidemia, Colesterolo, Trigliceridi, Statine) sono state introdotte altre chiavi di ricerca più dettagliate, alcune legate anche al gergo più comune con cui ci si riferisce alla ipercolesterolemia (ad es. colesterolo buono e colesterolo cattivo) altre all’ampia gamma di soluzioni terapeutiche disponibili, da quelle nutraceutiche a quelle più innovative (ad es. acido bempedoico). L’analisi ha permesso di enucleare, nell’ampio spazio della comunicazione online sulle dislipidemie, i principali temi di discussione e il sentiment ad essi associato, le tipologie di soggetti più attivi in rete su questo argomento ed i top influencer, i messaggi potenzialmente in grado di raggiungere la più amplia platea di internauti, le fonti e canali più rilevanti di propagazione. Ai fini della raccolta e analisi dei dati è stato utilizzato uno specifico tool di social media monitoring (NUVI e MEDIATOOLKIT). Al SML è stata associata, in via preliminare, anche una analisi di tipo quantitativo che, utilizzando lo strumento Google Trends, ha consentito di dar conto dell’andamento delle ricerche online su Google, com’è noto uno dei principali motori di ricerca, sul tema della dislipidemia e su altri argomenti ad essa associati, nell’arco temporale dal 22/03/2020 al 22/3/2021.

Gli approfondimenti del Board Tecnico Scientifico

In base a quanto premesso, di seguito saranno trattate le tre diverse tematiche in base alle specifiche aree di expertise dei membri del Board.

Colesterolo e malattie cardiovascolari: il “burden of disease”

I dati ISTAT relativi al periodo di osservazione gennaio – giugno 2020 confermano che le malattie cardiovascolari (CV) (ad es. infarto acuto del miocardio, ictus e vasculopatia periferica) sono al primo posto fra le cause di morte in Italia. In particolare sono stati stimati circa 30.000 decessi per malattie ischemiche cardiache, e tale numero corrisponde al 10% circa di tutti i decessi registrati nel medesimo periodo12. L’ipercolesterolemia, causata da elevate concentrazioni plasmatiche di C-LDL, rappresenta un importante fattore di rischio CV nella popolazione generale Italiana e ciò rende necessario compiere ulteriori sforzi per migliorare il suo trattamento. Tali sforzi, che richiedono necessariamente l’intervento congiunto e coordinato sia degli stakeholder nazionali e regionali, sia degli operatori sanitari (medici di medicina generale e specialisti), devono puntare a migliorare il modello di presa in carico del cittadino/paziente ipercolesterolemico, soprattutto se ad alto rischio. Tale miglioramento potrebbe realizzarsi anche attraverso poche e semplici azioni a basso costo che vanno dall’adozione di più idonee modalità per la refertazione dei parametri lipidici da parte dei laboratori clinici fino a una più attenta diagnosi differenziale delle diverse forme di ipercolesterolemia. In tal senso il laboratorio di patologia clinica può quindi rivestire un ruolo strategico nell’azione di screening della ipercolesterolemia; sono pertanto da raccomandare precise indicazioni circa la modalità di refertazione dei valori di C-LDL al fine di migliorare il livello di consapevolezza del significato clinico di questo fattore di rischio13. Una valutazione distinta riguarda invece i pazienti che hanno già avuto un evento cardiovascolare su base ischemica, poiché in questo caso si configura una condizione di rischio molto alto di nuovi eventi. Le nuove linee guida ESC/EAS 2019 classificano i pazienti con cardiopatia ischemica nella categoria a rischio cardiovascolare molto alto, con un rischio di morte a 10 anni superiore al 10%7. La prevenzione delle recidive dopo un evento cardiovascolare è detta comunemente prevenzione secondaria. È noto che la prognosi a distanza dopo una sindrome coronarica acuta è legata ad alcuni elementi ben conosciuti quali il grado di disfunzione ventricolare sinistra e/o la presenza di scompenso cardiaco; la presenza di aterosclerosi in altri distretti; la presenza di fattori di rischio tradizionali (ipertensione arteriosa, diabete mellito, fumo), tra i quali spicca per importanza l’ipercolesterolemia14-17. Il significato prognostico di elevati livelli di C-LDL ed i vantaggi ottenibili dalla sua riduzione farmacologica sono stati esaminati in numerose e ampie meta-analisi18,19 che hanno evidenziato come per ogni 38 mg/dl (1 mmol/L) di riduzione di C-LDL si associa una riduzione del 22% degli eventi CV maggiori a distanza20. L’insieme queste analisi ha consentito di raccomandare, nei pazienti con malattia cardiovascolare documentata, livelli di C-LDL inferiori a 55 mg/dl7. Partendo dal presupposto che una delle cause più frequenti di elevato rischio residuo, pur in presenza di un ottimale trattamento ipolipemizzante, è la persistenza di livelli elevati (o meglio non a target) di C-LDL, un aspetto di particolare rilievo nella pratica clinica è rappresentato dall’individuazione di quelle sindromi cliniche che sembrano associarsi a una particolare resistenza al trattamento ipolipemizzante. Tra queste va sicuramente collocata la Ipercolesterolemia Familiare (Familial Hypercolesterolemia, o FH). Questa è una malattia genetica del metabolismo lipidico causata da una alterata funzione del recettore per le LDL (LDLR). Il LDLR è una glicoproteina espressa sulla superficie cellulare che lega l’apolipoproteina B (apoB) presente sulla particella LDL. Grazie a tale legame, la LDL è eliminata dal circolo attraverso un processo di endocitosi recettore-dipendente. È stato dimostrato che altre proteine, come la PCSK9, sono in grado di modulare l’attività di LDLR21. La FH si trasmette in modo autosomico dominante, ed è noto che mutazioni nel gene LDLR rappresentano ~90% dei casi di FH21. Si stima che la prevalenza della FH nella popolazione generale sia intorno ad 1 caso ogni 230 individui22. Questa malattia genetica determina un aumento precoce e severo del C-LDL23,24 e comporta un aumento fino a 10 volte del rischio CV individuale25. Oltre ad elevati livelli di C-LDL, i pazienti con FH presentano alcuni segni fisici quali depositi di colesterolo nella membrana elastica delle palpebre (xantelasmi), nel tessuto connettivo dei tendini estensori (xantomi), e lungo il margine della cornea (arcus corneale)22, oltre alla precoce comparsa delle manifestazioni ischemiche della malattia ateromasica. In assenza di trattamento, la FH causa la comparsa precoce della malattia coronarica nel 50% dei maschi (prima dei 55 anni) e nel 30% delle femmine prima dei 60 anni22. I dati disponibili dimostrano chiaramente come tale patologia venga spesso diagnosticata in ritardo o, più spesso, non diagnosticata affatto26. Il ritardo diagnostico o la mancata diagnosi si traducono inevitabilmente in un danno sulla salute che porta con sé conseguenti elevati costi sanitari e sociali. La diagnosi di FH non sempre è facile, anche se valori di C-LDL >190 mg/dl possono essere un importante segno di allerta così come la familiarità per malattia coronarica. In aggiunta, sono stati sviluppati diversi algoritmi che possono guidare alla diagnosi clinica della FH senza dover necessariamente ricorrere alla diagnosi molecolare, la cui diffusione presso i medici di medicina generale, i pediatri di famiglia e gli specialisti potrebbe di molto migliorare la diagnosi precoce di questa patologia26. A tal proposito, le Società Europee di Cardiologia e di Aterosclerosi (ESC/EAS)27 hanno proposto l’algoritmo diagnostico denominato Dutch Lipid Clinic Network (DLCN)22, che si avvale di un sistema a punti per valutare tutti gli elementi clinici (la storia familiare, la storia clinica, i segni fisici, i livelli di C-LDL, e l’analisi del DNA) tipici della FH per classificare una diagnosi certa, probabile, possibile o negativa di FH. L’efficienza di questo sistema a punteggio è molto elevata poiché è stato dimostrato che in oltre l’80% delle persone con un punteggio DLCN >8 è possibile ritrovare mutazioni genetiche22. I criteri ESC/EAS sono stati inoltre approvati da diverse linee guida nazionali per la diagnosi di FH, inclusi quelli proposti dalla Società Italiana per lo Studio della Arteriosclerosi (SISA)28. In Italia, l’AIFA ha proposto i criteri per la diagnosi di FH basati principalmente su quelli indicati dal Simon Broome Register29. Inoltre, a causa dell’organizzazione regionale della assistenza sanitaria in Italia, alcuni servizi regionali hanno adottato specifiche linee guida. In particolare, le linee guida emanate dalla Regione Lazio30, hanno approvato l’uso di punteggio DLCN per la diagnosi di FH negli adulti. In Italia non sono state formulate al momento specifiche raccomandazioni circa l’uso dei test genetici. Come queste raccomandazioni siano poi implementate nella pratica clinica, al momento, non è noto.

Le attuali linee guida suggeriscono un trattamento intensivo nella cura della FH, indicando come obiettivo il raggiungimento di valori di C-LDL <100 mg/dl o <70 mg/dl nei pazienti in prevenzione primaria e <55 mg/dl in quelli a più alto rischio (ad esempio, con malattia coronarica o diabete mellito)22. In alternativa, è stata anche suggerita la necessità di ottenere almeno la riduzione dei livelli di C-LDL> 50% rispetto al basale22. Quest’approccio si basa sulla presenza dell’elevato rischio cardiovascolare nei pazienti FH (in particolare nei giovani adulti), che è superiore a quello di pazienti con livelli simili di C-LDL ma non causati da FH. Ciò probabilmente ha come causa l’esposizione nel paziente FH ad alte concentrazioni di C-LDL fin dalla nascita23. Il raggiungimento di tali obiettivi terapeutici è tuttavia difficile in molti pazienti con FH. Ad esempio, i dati del registro CASCADE FH (Cascade Screening for Awareness and Detection of Familial Hypercholesterolemia)31 indicano che livelli di C-LDL <100 mg/dl vengono raggiunti dal 25% dei pazienti, mentre livelli <70 mg/dl sono raggiunti da meno del 10% dei pazienti. Nello stesso registro è stato inoltre riportato che una riduzione dei livelli di C-LDL ≥50% è stata raggiunta solo nel 41% dei pazienti, nonostante il 42% dei pazienti fosse stato trattato con terapia con statine ad alta intensità. L’aggiunta di altri farmaci ipolipemizzanti, come l’ezetimibe, può incrementare il “successo terapeutico”, anche se ciò porta a target una percentuale relativamente limitata di pazienti con FH. Non esistono dati che indichino la prevalenza in Italia dei pazienti affetti da FH “resistenti” alle terapie farmacologiche attualmente disponibili; tuttavia utilizzando alcuni dati disponibili è possibile arrivare ad alcune stime approssimative. Assumendo che nella popolazione italiana (60 milioni di individui), la prevalenza della FH sia dello 0,22% (assumendo un livello di punteggio DLCN> 6) e dello 0,13% (assumendo un punteggio DLCN >8)22, il totale dei soggetti italiani affetti da FH dovrebbe essere compreso tra 132.000 e 78.000 pazienti. Alcuni studi hanno dimostrato che circa il 50% dei pazienti italiani affetti da FH non trattati presentano livelli di C-LDL superiori a 270 mg/dl, mentre il 25% presenta livelli superiori a 310 mg/dl32. Assumendo inoltre che la massima riduzione ottenibile con la terapia convenzionale (statina+ezetimibe) sia del 60 %20, è ipotizzabile ottenere un livello di C-LDL ~ 100 mg/dl in coloro che hanno livelli basali di 270 mg/dl (circa il 50% dei pazienti) e valori ~ 130 mg/dl in coloro che partono da livelli basali di 310 mg/dl (circa il 25%). Applicando tali percentuali alle diverse stime di prevalenza della popolazione con FH, si potrebbe ottenere un numero totale di pazienti FH resistenti alla terapia compreso tra 66.000 e 19.500 (in relazione alla scelta del livello di C-LDL da raggiungere). Assumendo infine che nella pratica clinica solo il 60% dei pazienti FH resistenti potrebbero poi essere realmente identificati, la dimensione finale della popolazione che dovrebbe essere avviata ad un trattamento farmacologico più intensivo come ad esempio quello che prevede l’impiego dei nuovi farmaci inibitori del PCSK9, potrebbe essere compresa tra 44.000 e 13.000 soggetti. Per affrontare il tema dei farmaci ipolipemizzanti oggi disponibili sono necessarie alcune premesse. In base ai dettati della Evidence Based Medicine (EBM) il rapporto beneficio-rischio di ogni farmaco deve (o, per lo meno, dovrebbe) essere dimostrato anche da studi clinici controllati, randomizzati (randomized clinical trials o RCT) e condotti in un campione di pazienti sufficientemente ampio per garantire un adeguato potere statistico33. È spesso difficile per i medici interpretare i risultati dei RCT, confrontarli con i dati provenienti da studi osservazionali e infine integrarli con la propria esperienza clinica. Proprio per questo, un gruppo di clinici, epidemiologi e statistici ha lavorato per rivedere le evidenze ottenute da RCT e studi osservazionali sull’impiego terapeutico delle statine34. È emerso innanzitutto che i RCT condotti su ampia scala dimostrano una stretta correlazione fra l’entità della diminuzione del C-LDL e la riduzione del rischio di eventi CV maggiori. Nel primo anno di trattamento con statine, la diminuzione di 1 mmol/L di C-LDL comporta una riduzione di circa il 10% del rischio di morte CV, infarto miocardico, ictus e rivascolarizzazione coronarica. L’entità del beneficio sale a circa il 25% negli anni successivi e risulta maggiore in caso di trattamenti con statine ad alte dosi. È stato stimato che la riduzione di 2 mmol/L del C-LDL sia associata a una riduzione del rischio CV di circa il 45% per ogni anno di trattamento successivo al primo. La riduzione del rischio è distribuita uniformemente fra i diversi eventi. La riduzione della mortalità CV è risultata del 12% per 1 mmol/L di C-LDL (circa 39 mg/dl), riferibile in maggior parte alla prevenzione della mortalità per cause coronariche (20%). Tale beneficio appare simile nei pazienti con o senza anamnesi per patologia cardiovascolare. Non sono invece emerse evidenze a sostegno del beneficio del trattamento con statine sulla mortalità da cause non vascolari, quali neoplasie, patologie respiratorie, traumi e altre cause (RR=0,96). Considerando che il costo annuale di una terapia efficace con statine generiche è davvero contenuto, sarebbe auspicabile trattare tutti i soggetti con C-LDL ≥4 mmol/L (≥155 mg/dl) per ottenere una diminuzione di almeno 2 mmol/L. Infatti, in termini assoluti, la riduzione di 2 mmol/L del C-LDL in una coorte di 10.000 pazienti trattati continuativamente con statine per 5 anni permetterebbe di evitare 1.000 eventi cardiovascolari maggiori (10%) in prevenzione secondaria in pazienti ad alto rischio, ovvero 500 eventi (5%) in prevenzione primaria in pazienti a basso rischio. Questo importante beneficio è ottenibile a fronte di un rischio modesto (1-2%) di effetti collaterali: l’incidenza attesa dei principali effetti indesiderati associati all’uso delle statine nei sopracitati 10.000 pazienti trattati per 5 anni è infatti di circa 5 casi di miopatia (definita dalla comparsa di dolore o astenia muscolare associata a un marcato aumento della creatina fosfochinasi (CPK) sierica), 20-100 nuovi casi di diabete e 5-10 episodi di ictus emorragico. I principali limiti di questa revisione delle evidenze sono rappresentati dalla mancanza di dati affidabili negli anziani e da carenze metodologiche sulla raccolta di eventi avversi di limitata importanza clinica per la salute del paziente, − ma rilevanti per la gestione della terapia come, ad esempio, la mialgia non tollerabile pur in assenza di aumento dei livelli del CPK, − l’insufficiente dimensione di alcuni degli studi e le differenti metodologie di segnalazione. Mancano infine dati comparativi di efficacia e sicurezza delle singole statine35. Inoltre, se davvero le statine siano da prescrivere in tutti pazienti indifferentemente dal rischio cardiovascolare è ancora argomento di dibattito. Una precedente meta-analisi di 22 RCTs aveva evidenziato una riduzione del 20% degli eventi cardiovascolari maggiori indipendentemente dal livello di rischio36. Tuttavia, una successiva revisione dei dati aveva posto in dubbio l’effettiva utilità di trattare pazienti con un rischio <10% a 10 anni37. Queste indicazioni spesso divergenti confermano quanto sia complesso trasferire i risultati degli studi nella pratica clinica38. Un altro farmaco ipolipemizzante somministrabile per via orale disponibile in Italia è l’ezetimibe. Nello studio multicentrico IMPROVE-IT sono stati trattati in doppio cieco, per un periodo mediano di 6 anni, 9.067 pazienti con ezetimibe 10 mg in associazione a simvastatina 40 mg e 9.077 con la sola simvastatina 40mg. In entrambi i gruppi di trattamento i pazienti assumevano altri trattamenti concomitanti quali acido acetilsalicilico, tienopiridine, beta-bloccanti e inibitori dell’angiotensina20. L’incidenza complessiva di morte CV infarto miocardico, ricovero per angina instabile, rivascolarizzazione coronarica dopo ≥30 gg dopo la randomizzazione e ictus (endpoint primario di efficacia), nel gruppo ezetimibe-simvastatina è stata del 32,7% rispetto al 34,7% con la sola simvastatina, con una significativa riduzione del rischio assoluto (ARR) del 2% a 7 anni (HR 0,936, IC95% 0,89-0,99, P=0,016)20. Nel 2017 sono diventati disponibili anche in Italia per il trattamento della ipercolesterolemia gli anticorpi monoclonali diretti contro la proteina PCSK9 (iPCSK9). La proteina PCSK9 che circola nel sangue, legandosi al LDLR, è in grado di avviarlo alla degradazione intracellulare riducendo in tal modo la rimozione delle C-LDL dal circolo. Di conseguenza, inattivare la PCSK9 consente di avere un maggior numero di LDLR disponibili per rimuovere una maggiore quantità di C-LDL dal circolo. Gli iPCSK9 attualmente autorizzati all’uso in Italia sono l’evolocumab e l’alirocumab. Questi anticorpi monoclonali sono somministrati per iniezione sottocutanea e si sono dimostrati in grado di ridurre del 50%-60% i livelli di C-LDL se impiegati sia in monoterapia sia in associazione alle statine nelle ipercolesterolemie familiari e non familiari39. Trial clinici con entrambi gli iPCSK9 hanno dimostrato la capacità di ridurre gli eventi cardiovascolari maggiori di circa il 15% dopo un breve periodo di follow-up (meno di tre anni) sia in pazienti con malattia vascolare cronica40 sia in pazienti sopravvissuti ad un recente (circa tre mesi) episodio di sindrome coronarica acuta41 che presentavano al momento dell’arruolamento livelli di C-LDL >70 mg/dl. Un altro farmaco di possibile impiego nella terapia della ipercolesterolemia è l’acido bempedoico. Si tratta di un inibitore della ATP-citrato liasi a livello epatico, ovvero l’enzima a monte della molecola bersaglio delle statine, aumentando quindi l’espressione epatica del recettore per LDL e la clearance delle LDL dal circolo. Il farmaco è stato autorizzato dall’EMA sia in aggiunta ad altre terapie ipolipemizzanti sia in alternativa alle statine nei pazienti con intolleranza o controindicazione alle statine stesse42. La sua valutazione da parte dell’AIFA è attualmente in corso. L’acido bempedoico ha dimostrato di essere efficace nella riduzione del C-LDL (mediamente di circa il 18-20%) in diversi RCT durante il percorso autorizzativo43-45, senza aumentare il rischio di dolori muscolari collaterali a confronto con placebo nel periodo di follow-up. Pur non essendo ancora disponibili i risultati del RCT specificamente disegnato per rilevare gli outcomes cardiovascolari, le analisi dello studio di fase 3 a maggiore numerosità45 hanno documentato un minor rischio assoluto di eventi CV maggiori nei trattati con acido bempedoico vs placebo (4.6 vs 5.7%). Nonostante la disponibilità di diversi farmaci ipolipemizzanti i livelli di C-LDL rimangono infatti sostanzialmente superiori agli obiettivi raccomandati nei pazienti a rischio di eventi CV alto e molto alto con un grande sottoutilizzo delle terapie di associazione46. I risultati dello studio osservazionale SANTORINI, condotto su 9.606 pazienti, recentemente presentati al Congresso della Società Europea di Cardiologia (ESC) 2021, hanno confermato questa tendenza, documentando che il 18,6% dei pazienti a rischio CV alto e molto alto non riceveva alcuna terapia ipolipemizzante; la maggior parte dei pazienti (54,1%) riceveva un solo farmaco mentre le terapie di associazione erano utilizzate solo nel 27,3% dei pazienti. La ridotta aderenza ai target suggeriti per il C-LDL in relazione al rischio CV complessivo si associa, infine, a implicazioni economiche rilevanti. A livello nazionale, il rapporto annuale sull’attività di ricovero ospedaliero (SDO) 201447 sui ricoveri ospedalieri ha mostrato che le ospedalizzazioni di qualsiasi tipo (acuti, Day Hospital (DH) e lungodegenza) per malattie CV (cardiopatia ischemica, sindrome coronarica acuta, ictus cerebrale, arteriopatie multidistrettuali, scompenso cardiaco) rappresentano il 12% di tutti i ricoveri, il 13,3% di tutte le giornate di degenza e il 17,3 % della remunerazione teorica, ovvero un costo per il Sistema Sanitario Nazionale (SSN) di circa 5 miliardi di Euro/anno. Sempre con riferimento alle malattie CV, un recente studio48 ha calcolato che nel totale delle prestazioni erogate dall’Istituto Nazionale Previdenza Sociale (INPS) per gruppi di patologie dal 2001 al 2015, le malattie cardiocircolatorie rappresentano il 21% del totale. Gli assegni di invalidità erogati dall’INPS (2001-2015) per tali patologie sono pari a più 400.000. Lo studio ha stimato oltre € 750 milioni di costi sostenuti dall’INPS per le malattie CV con un andamento che appare in aumento. Per quanto attiene l’ipercolesterolemia, lo stesso studio del 2016 ha valutato i costi diretti intesi come quelli legati alle ospedalizzazioni per eventi cerebro e CV, al trattamento farmacologico e alle prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale. Nel complesso è stata stimata una spesa annua di €1,14 miliardi, dovuta principalmente alle ospedalizzazioni (€1,10 miliardi). Analizzando i costi medi per soggetto, si evidenza che tutte le voci di spesa risultano più alte per i soggetti che nel corso dell’anno hanno sviluppato un evento cerebro o CV. Il costo medio per le ospedalizzazioni è più del doppio a causa del forte impatto in termini economici del ricovero per cause cerebro/cardiovascolari. Il costo medio annuo per singolo soggetto ipercolesterolemico è stimato pari a €6.100, ma varia da €3.400 in assenza di eventi cerebro/cardiovascolari a €8.800 in caso di evento.

Adesione e persistenza al trattamento ipolipemizzante: relazione con la tollerabilità ed il successo terapeutico

Nessun farmaco, anche il più efficace, ha effetto se non viene assunto!

È sicuramente una affermazione lapalissiana, ma che ci fa immediatamente capire che il beneficio clinico di un trattamento farmacologico non dipende solo da un’appropriata prescrizione medica, ma anche dal comportamento del paziente nell’aderire, in maniera corretta, al regime terapeutico prescritto. Per aderenza terapeutica si intende il grado di adesione del paziente alle raccomandazioni del medico. Il termine adesione terapeutica, preferibile a quello di aderenza, si riferisce alla partecipazione attiva del paziente alle indicazioni del medico prescrittore riguardo ai tempi, alle dosi e alla frequenza nell’assunzione del farmaco per l’intero ciclo di terapia (alleanza medico-paziente). I due parametri più diffusamente utilizzati sono il tasso di possesso del farmaco (medication possession rate o MPR), ovvero il rapporto tra il numero totale di giorni in terapia diviso per il tempo specificato di monitoraggio, e il numero di giorni di copertura della terapia (proportion of days covered o PDC), ovvero il rapporto tra il numero totale di giorni in cui il farmaco è disponibile (perché effettivamente dispensato) diviso per il tempo specificato di monitoraggio. Valori di MPR o PDC >80% sono considerati come indicatori di un ottimo livello di aderenza alla terapia ipolipemizzante con statine. Già nel 2003, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) dichiarava che “l’aderenza alle terapie croniche era non più del 50% nella popolazione generale”, e che “aumentare l’efficacia di adesione alla terapia potrebbe avere un impatto molto maggiore sulla salute della popolazione di qualsiasi miglioramento medico specifico”49. L’Osservatorio nazionale sull’uso dei Medicinali dell’AIFA, nella sua ultima versione consultabile on line50, rileva come in Italia permangano livelli di inappropriatezza prescrittiva per alcune classi di farmaci, ma anche di scarsa adesione alle terapie, in particolare quelle croniche, da parte di molti pazienti. Non fanno eccezione in tal senso le terapie ipolipemizzanti, come verrà ampiamente argomentato.

La bassa aderenza al trattamento è definita come copertura terapeutica inferiore al 40% del periodo di osservazione, mentre l’alta aderenza è definita come copertura terapeutica maggiore o uguale all’80% del periodo di osservazione. Come evidenziato nel summenzionato report AIFA, la percentuale di soggetti con alta aderenza al trattamento con ipolipemizzanti è stata del 41,5%. La valutazione è stata fatta su una popolazione totale di 209.595 nuovi utilizzatori di farmaci ipolipemizzanti (età mediana 67 anni (IQR 59-75), con una proporzione di donne lievemente maggiore rispetto agli uomini (52,8 % vs 47,2%). La probabilità di persistenza al trattamento era del 73,5% a 3 mesi, del 58,2% a 6 mesi e del 47,1% a 12 mesi.

Occorre ricordare che il tasso esatto di non-aderenza è difficile da confrontare nei diversi studi poiché esso dipende fortemente dal contesto clinico, dalla tipologia dei pazienti, dalla fonte dei dati e dai metodi di misura. Tuttavia, la maggior parte degli studi condotti su pazienti che avevano ricevuto una prescrizione di statine per il trattamento dell’ipercolesterolemia sono stati osservati elevati tassi di non-aderenza51,52. Ciò sembra essere legato in primo luogo all’elevato tasso di interruzione della terapia che si determina nei primi mesi dopo l’inizio della stessa. Infatti è stato osservato che l’aderenza diminuisce notevolmente dopo i primi sei mesi di terapia, e una percentuale tra il 25%-50% di nuovi utilizzatori di statine interrompe la terapia durante il primo anno 52,53. Inoltre, la non aderenza alla terapia ipolipemizzante tende a peggiorare nel tempo; in uno studio condotto su pazienti di età >65 anni è stato riportato che il tasso di aderenza dopo due anni era del 25,4% in pazienti in prevenzione primaria e solo leggermente migliore, 36,1% e 40,1%, nei pazienti con malattia coronarica cronica e sindrome coronarica acuta (prevenzione secondaria), rispettivamente54.

Tutti questi dati sono abbastanza preoccupanti dal momento che numerosi studi, come già precedentemente ricordato, hanno dimostrato in modo molto chiaro che i pazienti con una buona aderenza al trattamento vanno incontro ad una ridotta mortalità e meno ricoveri ospedalieri rispetto ai pazienti con bassa aderenza55, e questo vale anche per le terapie ipolipemizzanti56.

La inadeguata aderenza al trattamento può essere vista come uno “spreco di risorse” che non porta alcun beneficio clinico al paziente e che lo espone ai rischi di un trattamento del tutto inefficace e inutile. L’aderenza è infatti un fattore chiave per il successo di tutte le terapie farmacologiche. In particolare, i benefici in termini di protezione CV delle statine si sono dimostrati essere strettamente legati, non solo all’entità della riduzione del C-LDL ma anche, se non in misura maggiore, alla durata della terapia. Un’ampia meta-analisi che ha raccolto dati derivati da 49 studi randomizzati e controllati condotti con impiego di statine, ha mostrato che una riduzione marcata, ma per brevi periodi, del C-LDL non è in grado di determinare significativi benefici in termini di riduzione di eventi ischemici maggiori, ma che, al contrario, anche una moderata riduzione del C-LDL è in grado di ridurre in modo marcato il rischio cardiovascolare se mantenuta per almeno sei anni57. Un corollario di quest’osservazione è che la non-aderenza alla terapia con statine può rappresentare un importante problema di salute pubblica e contribuire ai costi di morbilità, mortalità e sanitari dei pazienti58. Ancora, è stato osservato che l’aderenza alla terapia con statine nei primi due anni di prescrizione può ridurre i tassi di ospedalizzazione e di spese mediche per l’anno successivo59. Sulla stessa linea, uno studio di simulazione di alcuni anni fa60 ha mostrato che migliorare l’aderenza alle statine del 50% (portandola dal 50% al 75%) sarebbe di per sé in grado di ridurre del doppio i nuovi decessi rispetto a una strategia mirante ad abbassare la soglia del rischio CV (dal 20% al 15,5% del rischio a 10 anni di CVD). Pertanto, il miglioramento dell’aderenza alla terapia con statine sarebbe non solo vantaggioso per i pazienti e gli operatori sanitari, ma anche per il contenimento dei costi del Sistema Sanitario Nazionale. Dello stesso tenore il report dell’AIFA che testualmente riporta: numerose evidenze scientifiche hanno dimostrato che adeguate aderenza e persistenza alla terapia con ipolipemizzanti sono associate a una riduzione del rischio di eventi CV nei soggetti in prevenzione primaria e secondaria”61,62,53.

L’osservazione delle cause e la decodifica delle motivazioni attinenti alla (non) aderenza assumono un significato sostanziale, su cui concentrare strategie di intervento per modificare l’impatto e le conseguenze sullo stato di salute del singolo individuo, sulla salute pubblica e sulla sostenibilità del sistema sanitario. In generale, l’aderenza a un trattamento farmacologico è un fenomeno complesso determinato dall’interazione di diverse cause, che possono essere riconducibili a fattori socio-economici e culturali, a fattori legati al sistema sanitario e agli operatori sanitari, ma anche alla condizione patologica, alla terapia e alle attitudini e percezioni del paziente. Si possono identificare tre categorie principali di cause: dipendenti dal paziente, dipendenti dal medico, e quelle dipendenti dall’organizzazione del sistema sanitario. Anche se questa categorizzazione è utile per la comprensione del fenomeno della non-aderenza, si deve tenere conto che queste diverse cause interagiscono sempre tra di loro nel condizionare l’aderenza nel singolo paziente. In estrema sintesi si può affermare che quando le diverse cause di interruzione del trattamento ipolipemizzante sono valutate in modo aggregato, emerge chiaramente come le cause legate al paziente mostrano di avere il maggiore potere nel predire l’aderenza alla terapia con statine. Tra queste spiccano per importanza la mancata comprensione della malattia, le riserve sull’efficacia del trattamento, i timori di effetti collaterali, la presenza di problemi psicologici o semplicemente il non gradimento dell’idea di prendere una pillola63. A tutto ciò si deve poi aggiungere che spesso i medici contribuiscono alla scarsa aderenza dei pazienti prescrivendo regimi terapeutici complessi, non riuscendo a spiegare adeguatamente i benefici e gli effetti collaterali di un farmaco, non prendendo in considerazione lo stile di vita del paziente o il costo dei farmaci, e avendo insoddisfacenti relazioni con i loro pazienti. Più in generale, i sistemi sanitari poi creano barriere all’aderenza limitando l’accesso alle cure sanitarie, imponendo costi elevati ai farmaci o formule di partecipazione da parte del paziente alla spesa farmaceutica. Certamente, tra tutte le summenzionate cause di non aderenza al trattamento spicca la scarsa consapevolezza della rilevanza dell’ipercolesterolemia e del rischio CV, su cui occorre fare alcune puntualizzazioni. Un evidente ostacolo all’aderenza alla terapia con farmaci che curano patologie asintomatiche è proprio la mancanza di percezione della malattia (o della sua severità) che si associa spesso alla poca fiducia nell’efficacia del farmaco. A causa della mancanza di sintomi legati a livelli elevati di colesterolemia, i pazienti ipercolesterolemici non si sentono malati o non si rendono conto che i loro livelli di colesterolemia dovrebbero essere corretti. Nel corso di indagini condotte in pazienti che hanno interrotto il trattamento ipolipemizzante, è stato osservato che la maggior parte dei pazienti ritiene che le statine riducano efficacemente i livelli di colesterolemia e che avere un alto livello di colesterolo è pericoloso, ma molti hanno anche messo in dubbio il loro bisogno personale per le statine64. Un certo numero di partecipanti riteneva che i livelli di colesterolemia fossero abbastanza vicini agli obiettivi terapeutici e che le statine non sarebbero state di grande utilità per raggiungerli.

È intuitivo che l’aderenza può essere migliore quando il paziente accetta la necessità di curare la sua malattia, si fida del terapeuta e crede nell’efficacia delle misure terapeutiche raccomandate65. Infatti, Benner et al66 hanno osservato che la presenza di malattia cardiovascolare rappresenta un predittore di aderenza alla terapia. Inoltre Ellis et al67 hanno rilevato un tasso di interruzione del trattamento con statine significativamente più alto tra i pazienti in prevenzione primaria rispetto a quelli trattati in prevenzione secondaria.

Non meno importante, come causa della non aderenza al trattamento, è la complessità dei regimi terapeutici; in effetti molti pazienti ipercolesterolemici possono essere contemporaneamente portatori di altri fattori di rischio o di malattie vascolari, e perciò i regimi terapeutici che sono loro prescritti spesso prevedono l’uso di più farmaci e di frequenti somministrazioni al giorno. La complessità dei regimi terapeutici può costituire un serio limite per un’efficace gestione delle malattie croniche ed anche dell’ipercolesterolemia. Uno studio condotto su un’ampia coorte di individui con malattie CV che ricevevano prescrizioni per statine e per farmaci antiipertensivi ha dimostrato le difficoltà affrontate da questi pazienti68. Durante un periodo di 3 mesi, i pazienti avevano ricevuto prescrizioni per una media di 11,4 farmaci, corrispondenti in media a 5,9 diverse classi di farmaci. Più sorprendentemente, in questo stesso periodo di tempo, il 10% dei pazienti ha ricevuto prescrizioni per 23 o più farmaci, rappresentati da più di dodici farmaci unici ed appartenenti a più di undici differenti classi; inoltre essi hanno ricevuto prescrizioni da quattro o più medici diversi, e compiuto più di undici visite in farmacia. È stato suggerito che la politerapia possa avere un effetto negativo sull’aderenza perché i pazienti fanno spesso fatica a comprendere i diversi regimi di dosaggio complessi e/o a organizzare le schede di somministrazione. Come corollario di ciò, qualsiasi sforzo per semplificare gli schemi terapeutici indicando con precisione l’importanza delle diverse cure, può rappresentare un utile intervento per migliorare l’aderenza.

Da un punto di vista specificamente clinico, una causa rilevante di non aderenza al trattamento è riferibile all’efficacia dell’effetto ipolipemizzante, che rappresenta un fulcro intorno al quale ruotano le differenti figure coinvolte, a vario titolo, nella gestione della patologia: medici, pazienti e caregivers. Spesso infatti il trattamento ipolipemizzante iniziale è costituito dalla monoterapia con statine a basse dosi o a bassa potenza e raramente comprende terapie ipolipemizzanti aggiuntive. Questi dosaggi di statine spesso non sono coerenti con il rischio CV del paziente e con gli obiettivi terapeutici in termini di riduzione dei livelli di C-LDL. L’impiego di dosi inadeguate è generalmente riconosciuto come uno dei motivi per la bassa percentuale di successo della terapia ipocolesterolemizzante e indirettamente di aderenza al regime terapeutico. Inoltre, la maggior parte dei pazienti che iniziano il trattamento con statine rimangono alle dosi iniziali nonostante l’incapacità di raggiungere il loro obiettivo terapeutico, un fenomeno noto come “inerzia clinica”. Nel sondaggio LIPI -WATCH, il 77% dei pazienti è stato mantenuto alla dose iniziale, anche se non aveva raggiunto il target69. Un numero relativamente limitato di pazienti è stato trattato con dosaggi testati in studi o indicati come necessari per ottenere il raggiungimento dei target terapeutici che sono stati individuati in studi randomizzati. Allo stesso modo, in un altro studio, l’88% dei pazienti che non hanno raggiunto il loro obiettivo di C-LDL sono stati mantenuti alla stessa dose di statine per almeno 1 anno, e solo il 3 % riceveva la dose massima del farmaco70. Molte evidenze suggeriscono che anche l’efficacia della terapia ipolipemizzante può influenzare in modo significativo l’aderenza alla terapia stessa. Benner et al71 hanno ipotizzato che il raggiungimento di risultati favorevoli durante le prime settimane di terapia può essere un elemento importante di autovalutazione dell’efficacia della terapia ipolipemizzante e può quindi influenzare l’aderenza a lungo termine. Per verificare questa ipotesi, questi autori hanno condotto uno studio retrospettivo che ha considerato un periodo di 3 anni in un gruppo di nuovi utilizzatori di statine, osservando che i pazienti che ottenevano la riduzione più limitata nei livelli di C-LDL mostravano contemporaneamente le percentuali più basse di aderenza. Un’altra analisi, sempre condotta da Benner et al66 ha rilevato che, sebbene la storia di ictus, insufficienza cardiaca cronica, diabete o ipertensione rappresentassero i migliori predittori di aderenza alla terapia, i pazienti che avevano avuto un infarto miocardico dopo l’inizio della terapia con statine erano significativamente meno propensi a continuare il loro uso dopo l’evento, forse perché avevano percepito come inefficace il farmaco prescritto. Le diverse statine oggi a disposizione presentano, quando usate in monoterapia, un ampio range di efficacia ipolipemizzante. Ciò ha un profondo effetto nella possibilità che le diverse statine consentano di raggiungere nei singoli pazienti gli obiettivi terapeutici. Nello studio VOYAGER72 che ha raccolto dati di vari studi che hanno impiegato diverse statine, è stato dimostrato che l’utilizzo delle statine a più elevata potenza/efficacia (in modo particolare atorvastatina e rosuvastatina) si associava alle percentuali più elevate di “successo terapeutico”. In particolare, la dose di rosuvastatina 40 mg si era dimostrata in grado di far raggiungere l’obiettivo terapeutico di C-LDL <100 mg/dl in oltre il 70% dei pazienti. Appare quindi ovvio come la scelta della statina possa nettamente influenzare l’efficacia del trattamento ed anche l’aderenza alla terapia ipolipemizzante. Alcuni di questi aspetti sono stati valutati in un recente studio condotto in Italia73 denominato STAR (Statins Target Assessment in Real practice). L’obiettivo primario dello studio STAR è stato quello di determinare la riduzione dei livelli di C-LDL e analizzare i fattori che consentono il raggiungimento del target terapeutico in pazienti che avevano ricevuto per la prima volta il trattamento con statine (naïve), provenienti da una popolazione non selezionata e in condizioni di usuale pratica clinica. A questo scopo in cinque unità territoriali partecipanti al progetto (ASL con sede in Emilia Romagna, Toscana e Umbria) è stato possibile correlare attraverso procedure di data linkage i dati dei flussi amministrativi correnti (farmaceutica territoriale, erogazione diretta, specialistica ambulatoriale, nosologica ospedaliera) con i parametri ematochimici determinati da laboratori centralizzati. L’indagine, che è stata condotta impiegando un modello di studio di coorte retrospettivo, ha incluso tutti gli individui residenti di età >18 anni, che iniziavano il trattamento farmacologico con almeno una prescrizione di statine in un periodo indice di 18 mesi (1/1/2007 – 30/6/2008). È stato considerato l’assetto lipidico iniziale (precedente alla prima prescrizione) e finale (intorno all’ultima), valutando tutte le prescrizioni per statine nei 12 mesi successivi alla data di inclusione; è stata quindi calcolata l’aderenza al trattamento. Sono stati inclusi 3.232 soggetti (1.516 maschi, 47%, e 1.716 femmine, 53%), con età media di 65,9 ± 11,3 anni. Questa coorte comprendeva pazienti in prevenzione sia primaria che secondaria (questi ultimi il 18,5%). Un primo dato di rilievo emerso da questo studio è quello secondo il quale, rispetto ai livelli iniziali di C-LDL, il 22,6% dei soggetti ha evidenziato una distanza dal target terapeutico <10%, il 30% tra 10 e 29%, il 20,7% tra 30 e 49% e il 26,7% >50%. Ciò supporta la conclusione che anche in un gruppo di pazienti non particolarmente selezionato, circa ¼ di essi richiede un intervento ipolipemizzante di elevata potenza per raggiungere il target ottimale. Purtuttavia, a conferma dell’esistenza di una certa “inerzia clinica”, soltanto il 48% dei soggetti con la necessità di ottenere una riduzione del C-LDL >50% ha ricevuto prescrizioni di statine a elevata potenza. Per quanto riguarda l’atorvastatina, l’80% dei soggetti trattati ha ricevuto una dose di 10 o 20 mg/die e per quanto riguarda la rosuvastatina, il 92% dei soggetti trattati ha ricevuto una dose di 5 o 10 mg/die. Tra coloro che richiedevano una riduzione di C-LDL > 50%, oppure di 30-49% e di 10-29%, il target terapeutico è stato raggiunto nel 7,1%, 41,8% e 62,3% rispettivamente. Da questo studio è emerso chiaramente che il raggiungimento del target terapeutico è stato condizionato dall’aderenza al trattamento, dall’entità della riduzione attesa di C-LDL e dal tipo di statina utilizzata. Riconoscendo l’importanza dell’aderenza a lungo termine della terapia ipolipemizzante, numerose linee guida raccomandano che i pazienti siano rivalutati dopo 6-8 settimane dall’inizio del trattamento con eventuale aggiustamento del dosaggio o cambiamento del farmaco, e ogni 4-6 mesi una volta che gli obiettivi del trattamento siano stati raggiunti. Gli obiettivi primari di uno stretto monitoraggio sono non solo quelli di monitorare l’efficacia della terapia farmacologica, ma soprattutto quelli di promuovere la compliance del paziente. Purtuttavia, la necessità di numerosi controlli clinici e, più ancora, la necessità di numerose correzioni della posologia o del farmaco possono essere degli elementi in grado di rappresentare un ostacolo alla migliore aderenza alla terapia. Si può facilmente immaginare che la statina che consenta di ottenere più rapidamente e con maggiore probabilità il raggiungimento del target terapeutico possa rappresentare la scelta ottimale anche per migliorare l’aderenza alla terapia ipolipemizzante con un’implicita ricaduta sui costi delle prestazioni e sull’impegno richiesto agli operatori sanitari. Sul solco delle considerazioni di tipo clinico fin qui fatte, anche la comparsa di eventi avversi e di sintomatologia riconducibile ad effetti collaterali (in particolare dolori muscolari o mialgie), si ritiene che possa essere un importante motivo per cui una ampia proporzione della popolazione, che beneficerebbe del trattamento con farmaci ipolipemizzanti, interrompe comunque il trattamento o diviene basso-aderente. È interessante osservare che negli studi clinici randomizzati, controllati e in cieco, effettuati con statine, gli eventi avversi attribuibili al farmaco sono rari in confronto a quelli riportati negli studi osservazionali, in cui gli eventi avversi attribuiti alla statina sembrano manifestarsi in quasi il 20% dei soggetti in trattamento. A questo riguardo è illuminante l’informazione che deriva da una analisi dello Anglo-Scandinavian Cardiac Outcomes Trial—Lipid-Lowering Arm, in cui gli eventi avversi potenzialmente attribuibili al trattamento con statina sono stati valutati sia nella fase in cui la atorvastatina veniva somministrata in doppio cieco (e confrontata con placebo), sia nella successiva fase in aperto e senza randomizzazione, in cui il confronto era tra chi assumeva e chi non assumeva atorvastatina in questo caso consapevolmente74. La valutazione degli eventi avversi mostrava un eccesso di incidenza di mialgie riferita dai pazienti solo nella fase in aperto della sperimentazione, cioè in quella fase in cui i pazienti sapevano di assumere la statina. Nella fase in cieco, quella cioè in cui i pazienti non sapevano se stessero prendendo la statina o il placebo, non si è riscontrata alcuna differenza nella segnalazione di dolori muscolari nei due gruppi. Questa osservazione è consistente con l’ipotesi che parte della quantità di casi di intolleranza alle statine sia stata determinata dal cosiddetto effetto nocebo. L’effetto nocebo è una situazione in cui eventi avversi soggettivi (ad esempio sintomi riportati dal paziente, come i dolori muscolari), sono attribuiti ad un trattamento che si ritiene sia associato a qualche particolare evento avverso. L’effetto nocebo è l’opposto dell’effetto placebo, ed è un ben conosciuto fenomeno spesso sottostimato nella medicina cardiovascolare. Entrambi questi fenomeni hanno alla loro base meccanismi neuropsicologici normali della mente umana. L’effetto nocebo si riferisce al manifestarsi di eventi avversi, normalmente solo soggettivi, che sono la conseguenza di una aspettativa di un danno in conseguenza di un trattamento, che sia un farmaco, un placebo o altro intervento medico o non medico. Questa aspettativa può essere attivata da numerosi fattori: la lettura di una informativa prima di uno studio clinico, una enfasi su possibili eventi avversi trasmessa da un medico durante la prescrizione di un farmaco, la lettura del foglietto illustrativo, informazioni ricavate dai media ecc. L’effetto nocebo è ritenuto essere una spiegazione attendibile per una parte degli effetti collaterali soggettivi attribuiti alle statine, in particolare per i sintomi soggettivi come i dolori muscolari75. Recentemente è stato pubblicato un interessante studio (Self Assessment Method for Statin side effects Or Nocebo – SAMSON trial) teso a verificare da parte dello stesso soggetto se ha avuto un vero effetto collaterale da parte del farmaco (nel caso specifico una statina) o se è stato vittima dell’effetto nocebo76. Poter separare queste due componenti potrebbe permettere ai ricercatori clinici di esplorare i determinanti alla loro base, aprendo nuove opportunità per ottenere risultati migliori nella pratica clinica, nel senso di poter controllare e quindi ridurre l’impatto degli eventi avversi determinati dall’effetto nocebo77. L’applicazione clinica di questo approccio è purtroppo ancora lontana; la possibilità di ridurre gli eventi avversi determinati dall’effetto nocebo, ma attribuiti al farmaco, rimane al momento solo teorica. Dovranno pertanto essere messe in atto altre strategie per migliorare l’aderenza/adesione dei pazienti alla terapia ipolipemizzante per ottenere quei risultati clinici che l’abbassamento farmacologico dei livelli di C-LDL permette.

L’aderenza alla terapia con statine in pazienti ad alto rischio CV

Il ruolo determinante dell’utilizzo e dell’aderenza alla terapia farmacologica con statine dopo un episodio di infarto STEMI è stato ampiamente documentato attraverso studi nazionali e internazionali78-84. Tuttavia, recenti studi osservazionali hanno rilevato una sostanziale variabilità tra provider assistenziali e sottogruppi di popolazione, evidenziando problemi di equità nell’accesso alle cure ottimali85. Questo contributo è orientato a evidenziare quanto sia importante, nell’era della valutazione degli interventi sanitari, la conduzione di studi “real world” volti alla misurazione e al monitoraggio di quella “distanza” che da sempre separa la pratica clinica dalle linee guida86. Le evidenze dal mondo reale possono costituire un utile strumento a supporto delle politiche regionali, per orientare le azioni di audit clinico e organizzativo e identificare gli interventi più efficaci, capaci di aumentare l’aderenza alle terapie croniche e ridurre la variabilità spesso ingiustificata nella qualità dei percorsi assistenziali87.

È stata eseguita un’osservazione a distanza su pazienti assistiti nella Regione Lazio con malattia CV nota, con i seguenti obiettivi:

• misurare l’aderenza alla terapia con statine dopo un episodio di infarto STEMI.

• Identificare le fasce di popolazione potenzialmente svantaggiate in termini di accesso alle cure ottimali.

• Misurare e valutare la variabilità nell’aderenza al trattamento tra le aree geografiche di una medesima regione, così come la variabilità tra i provider assistenziali, con particolare riferimento al binomio “ospedale-territorio”.

• Identificare i principali predittori dell’aderenza terapeutica.

Lo studio ha incluso tutti i pazienti assistiti nella Regione Lazio, di età ≥ di 35 anni ricoverati e dimessi con diagnosi di infarto STEMI (ricovero indice) nel periodo 01/01/2017 – 31/12/2018. Sono stati valutati esclusivamente i soggetti al primo episodio di infarto, dopo aver escluso tutti i pazienti con pregressi eventi cardiovascolari. Infatti, l’integrazione di numerosi sistemi informativi sanitari ha permesso di ricostruire il profilo cronologico, clinico e assistenziale di ciascun paziente, consentendone la caratterizzazione demografica e clinica sia prima che dopo l’episodio acuto. Il periodo di follow-up per la misura dell’esposizione e dell’aderenza al trattamento con statine ha inizio con la data di dimissione ed ha una durata di un anno. Un paziente è stato definito “aderente al trattamento”88 se la proporzione di giorni coperti dalla terapia con statine risultava maggiore o uguale al 75% del periodo di osservazione individuale. A tal fine, è stato utilizzato il Medication Possession Ratio (MPR), che misura quanta parte del periodo di follow-up è stata adeguatamente coperta dal trattamento farmacologico, in accordo alle dosi definite giornaliere (DDD) stabilite dall’OMS.

Complessivamente, sono stati analizzati oltre 3.600 pazienti al primo episodio di infarto STEMI. Le caratteristiche demografiche e cliniche, così come alcune caratteristiche del ricovero, sono mostrate in tabella 1.

Come mostrato in tabella 1, i pazienti di genere maschile rappresentano il 75% della coorte. Il 24% dei soggetti ha tra i 35 e i 54 anni, il 43% tra i 55 e i 69, il 27% tra i 70 e gli 84 anni.

Tabella 1. Descrizione della coorte

N. di pazienti arruolati 3658
N %
Uomini 2755 75,3
Età media (anni, media ± SD) 64 ± 12
Classe d’età: 35-54

Classe d’età: 55-69

Classe d’età: 70-84

Classe d’età: 85+

888

1589

983

198

24,3

43,4

26,9

5,4

Durata media ricovero indice (giorni, media ± SD) 8 ± 5
Intervento di PTCA o BPAC nel ricovero indice 3365 92,0
Reparto di dimissione: specialistico* 3592 98,2
N. di patologie concomitanti: 0

N. di patologie concomitanti: 1

N. di patologie concomitanti: 2

N. di patologie concomitanti: 3 o più

1593

997

600

468

43,5

27,3

16,4

12,8

Pregresso uso di statine 516 14,1

* Reparti “specialistici”: cardiologia, cardiochirurgia e unità coronarica.

Il 57% dei pazienti presenta almeno una patologia cronica concomitante all’infarto STEMI. In particolare: il 27% è affetto da una patologia concomitante, il 16% da 2 patologie e il 13% è affetto da almeno 3 patologie croniche concomitanti. Durante il ricovero, il 92% dei soggetti è stato sottoposto ad un intervento di rivascolarizzazione. Inoltre, il 98% dei pazienti è stato dimesso da un reparto specialistico (cardiologia, cardiochirurgia, unità coronarica).

In tabella 2 viene presentata la percentuale di pazienti esposti alle statine durante i 365 giorni di follow-up e la percentuale di pazienti aderenti al trattamento (MPR ≥ 75%). Tali percentuali non vanno interpretate come “aderenza del paziente rispetto alla terapia prescritta” ma come aderenza del paziente “rispetto alle linee guida”. Infatti, siamo di fronte ad una distanza da colmare, quella tra pratica clinica e linee guida. Tuttavia, questa distanza non dipende soltanto dal paziente, ma anche dal medico di medicina generale89, dalla continuità assistenziale offerta dai Distretti Sanitari, così come dalla qualità dell’assistenza ospedaliera alla dimissione, con particolare riferimento alla fase di transizione dall’ospedale al territorio. Infine, si ritiene necessaria un’ultima puntualizzazione. La misura dell’aderenza non avviene sulla base delle dosi effettivamente assunte dal paziente ma sulla base delle dosi dispensate dalle farmacie, in regime di convenzione col Sistema Sanitario Regionale. Questa misura, comunque, costituisce una buona variabile “proxy del farmaco effettivamente assunto dal paziente, soprattutto nel caso di dispensazioni ripetute nel tempo (refill compliance).

Tabella 2. Esposizione e aderenza alla terapia con statine, per genere e classe di età

* Chi-squared test – p<0.001.

N %
Pazienti esposti alla statina 3505 95,8
Pazienti aderenti al trattamento 3267 89,3
Pazienti aderenti per genere*: uomini

Pazienti aderenti per genere*: donne

2501

766

90,8

84,8

Pazienti aderenti per classe d’età^: 35-54

Pazienti aderenti per classe d’età^: 55-69

Pazienti aderenti per classe d’età^: 70-84

Pazienti aderenti per classe d’età^: 85+

818

1447

850

152

92,1

91,1

86,5

76,8

^ Global Chi-squared test – p<0.001.

Solo il 4% dei pazienti non è stato esposto alla terapia con statine (almeno una prescrizione) nei 365 giorni successivi alla dimissione. L’aderenza alla terapia farmacologica è piuttosto elevata: l’89% dei soggetti risulta aderente al trattamento. La proporzione di pazienti aderenti è superiore negli uomini: 91% versus 85%. Analizzando la proporzione di pazienti aderenti per classe di età emerge come all’aumentare dell’età diminuisca progressivamente la proporzione di pazienti aderenti, passando dal 92% nella classe di età 35-54 al 77% negli ultra-ottantacinquenni.

In figura 1 viene mostrata la probabilità di aderire al trattamento con statine per età “puntuale” del paziente, distinta per genere.

Figura 1. Aderenza alla terapia per età: differenze di genere

Si nota come lo “svantaggio” femminile si confermi “a parità di età”90, con un divario che aumenta progressivamente al progredire di quest’ultima. Inoltre, dalla figura emerge con chiarezza come, in entrambi i generi, l’aderenza alla terapia diminuisca in maniera molto rilevante nei grandi anziani, probabilmente a causa delle barriere fisiche nell’accesso alle cure ottimali che subentrano in età avanzata, ad una medicina generale ancora troppo improntata sull’attesa e alla carenza di un supporto socio-sanitario dedicato ai pazienti più fragili.

In figura 2 viene mostrata la percentuale di pazienti aderenti alla terapia con statine per Distretto sanitario di assistenza.

Tra i 46 Distretti Sanitari della regione Lazio la percentuale di aderenti varia da un minimo del 79% ad un massimo del 98%. Nonostante la variabilità “geografica” evidenziata da questi risultati, i livelli di aderenza appaiono sempre piuttosto soddisfacenti in tutti i Distretti della Regione.

Gli intervalli sono stati individuati con il metodo di classificazione Natural Breaks di Jenks, che minimizza la varianza entro le classi e massimizza quella tra le classi.

Figura 2. Aderenza al trattamento con statine per distretto sanitario di assistenza

In figura 3 c’è un cambio di prospettiva: dalla variabilità tra Distretti alla variabilità tra le strutture ospedaliere che hanno dimesso il paziente. In questo caso il divario è più evidente: la percentuale di aderenti per struttura ospedaliera infatti varia da un minimo del 69% ad un massimo del 98%.In tabella 3 sono presentati i risultati dell’analisi multilivello91. L’obiettivo di questa metodologia è quello di ricondurre la variabilità osservata all’interno dei confini regionali ai provider assistenziali responsabili della presa in carico del paziente con pregresso infarto STEMI, con particolare attenzione al rapporto tra ospedale e territorio92. L’attribuzione della variabilità agli specifici provider assistenziali riveste un ruolo cruciale per poter avviare procedure di audit clinico e organizzativo.

Per aspetti legati alla potenza statistica e alla consistenza delle stime, sono state considerate le sole strutture ospedaliere che nel periodo in studio hanno dimesso almeno 20 pazienti con un primo episodio di infarto STEMI.

Figura 3. Aderenza per struttura ospedaliera di dimissione

Tabella 3. Median Odds Ratio (MOR): modelli multilivello per l’analisi della variabilità nell’aderenza al trattamento

Modello a 3 livelli

(paziente-distretto-ASL)

Modello cross-classificato a 4 livelli

(paziente-distretto-ASL-ospedale)

Livello MOR p IC 95% MOR p IC 95%
Ospedale 1,78 0,006 1,48-2,34
ASL 1,30 0,131 1,11-1,86 ≈1 n.c. n.c.
Distretto 1,20 0,218 1,05-1,91 ≈1 n.c. n.c.

Il primo modello presentato, il modello a 3 livelli (paziente-distretto-ASL), prende in considerazione il solo setting territoriale dell’assistenza: ASL e Distretto sanitario. Per ciascun livello è stata calcolata una “componente della varianza”. Le componenti sono state successivamente espresse in termini di Median Odds Ratio – MOR93, che quantifica la variabilità tra gruppi. Un MOR = 1 indica assenza di variabilità; all’aumentare del MOR aumenta la variabilità tra i gruppi considerati (i provider assistenziali, in questo caso).

Al fine di controllare per l’effetto composizione, i MOR presentati sono aggiustati per le caratteristiche demografiche e cliniche dei pazienti. Il MOR relativo al livello ASL (1,30) è maggiore del MOR relativo al livello Distretto (1,20). Tuttavia, entrambe le componenti non sono statisticamente significative: non vi è evidenza di variabilità tra i Distretti afferenti alla medesima ASL, né tra le ASL.

Al modello puramente gerarchico appena descritto è stato affiancato un ulteriore livello di analisi, il livello ospedale di dimissione. Tale introduzione trasforma la struttura puramente gerarchica dei dati in una struttura cross-classificata. L’analisi cross-classificata a 4 livelli risulta particolarmente interessante perché coinvolge le due principali forme di assistenza in cui il servizio sanitario risulta attualmente articolato, l’assistenza territoriale e l’assistenza ospedaliera. Questo permette di individuare il livello ‘maggiormente responsabilÈ della variabilità osservata nell’aderenza alla terapia. Con l’introduzione del livello-ospedale, i MOR relativi al livello Distretto e al livello ASL si approssimano a 1. In altre parole, non vi è evidenza di variabilità tra distretti e tra ASL, nell’ipotesi in cui tutti i pazienti siano stati dimessi dallo stesso ospedale. Il MOR relativo al livello ospedale, al contrario, è molto elevato (1,78) ed altamente significativo.

Dunque, la maggior parte della variabilità nell’aderenza alla terapia con statine dopo un primo episodio di infarto STEMI è attribuibile alla struttura che ha dimesso il paziente. In tal senso, i driver principali attraverso i quali l’ospedale “genera” variabilità sono: il reparto alla dimissione (i pazienti dimessi da reparti specialistici hanno una probabilità di essere aderenti al trattamento più che doppia rispetto ai pazienti dimessi da reparti di medicina interna o geriatria); la redazione di una lettera di dimissione accurata e completa; la pianificazione, al momento stesso della dimissione, delle visite di follow-up, preferibilmente presso la stessa equipe che ha gestito la fase acuta della patologia. Infatti, un corretto follow-up dopo la dimissione è fondamentale per “sostenere il paziente” e per gestire in maniera opportuna e tempestiva gli eventuali effetti collaterali attribuibili alla terapia. Questo evita che il paziente passi da un iniziale regime di elevata aderenza al trattamento a successivi regimi caratterizzati da saltuarietà, ciclicità e occasionalità94.

In tabella 4 vengono, infine, mostrati i “predittori” di aderenza al trattamento.

In tabella 4 vengono presentati gli Odds Ratio (OR) relativi ai predittori di aderenza alla terapia, misurati sul livello paziente e inseriti nel modello cross-classificato. Come già emerso dalle analisi descrittive, le donne hanno una minore probabilità di aderenza rispetto agli uomini, così come i grandi anziani rispetto ai pazienti di età compresa tra i 35 e i 54 anni. Inoltre, i pazienti “clinicamente complessi”, con almeno 3 patologie croniche concomitanti, hanno una maggiore difficoltà nell’instaurare un corretto regime terapeutico dopo la dimissione. Al contrario, i pazienti sottoposti a rivascolarizzazione durante il ricovero indice hanno una probabilità di aderenza al trattamento con statine oltre 3 volte superiore rispetto ai pazienti che non sono stati sottoposti a PTCA o bypass.

Tabella 4. Predittori di aderenza al trattamento con statine

Predittore Reference OR p IC 95%
Genere: donna uomo 0,77 0,044 0,60-0,99
Classe d’età: 55-69

Classe d’età: 70-84

Classe d’età: 85+

35-54

35-54

35-54

0,94

0,75

0,51

0,695

0,105

0,006

0,69-1,29

0,52-1,06

0,32-0,83

N. di patologie concomitanti: 1

N. di patologie concomitanti: 2

N. di patologie concomitanti: 3+

0

0

0

0,97

1,10

0,62

0,825

0,590

0,008

0,73-1,29

0,78-1,56

0,44-0,89

Intervento di PTCA o bypass nel ricovero indice assenza 3,19 <0,001 2,24-4,55
Reparto di dimissione: “specialistico” altro 2,35 0,006 1,27-4,32

Complessivamente, sulla base dei risultati dello studio condotto nella Regione Lazio, l’aderenza al trattamento con statine dopo un episodio di infarto STEMI ha raggiunto nel tempo un livello piuttosto soddisfacente. Tuttavia, l’elevato “ordine medio di grandezza” può nascondere alcune criticità assistenziali nella presa in carico del paziente, che possono essere evidenziate esclusivamente attraverso la conduzione di studi real world. Basti pensare allo “svantaggio femminile” nell’accesso alle cure ottimali, alla drastica riduzione nell’aderenza al trattamento passando dagli anziani ai grandi anziani o ai problemi legati al paziente multi-cronico, che presenta difficoltà enormi nell’instaurazione di un corretto regime terapeutico persino dopo un evento acuto e traumatico come l’infarto STEMI. Questi elementi pongono in evidenza le principali criticità di un sistema sanitario ancora essenzialmente basato sulla medicina d’attesa e ancora troppo restìo nell’accettare reali forme di cooperazione multiprofessionale e multidisciplinare. Solo a titolo di esempio, opportuni interventi di deprescribing potrebbero favorire notevolmente l’aderenza dei pazienti multi-cronici alle terapie evidence-based “salvavita” (e.g. il trattamento con statine), rimodulando i pregressi schemi terapeutici, generalmente costituiti da un numero elevatissimo di farmaci non armonizzati. Tra le ulteriori criticità, emerge l’assenza di un approccio socio-sanitario nella presa in carico del paziente, con svantaggi enormi da parte dei pazienti più anziani, soprattutto se non autosufficienti, disabili e senza ammortizzatori sociali.

Inoltre, l’estrema eterogeneità in termini di aderenza al trattamento osservata tra le strutture ospedaliere pone in evidenza la necessità di un follow-up ben strutturato sin dal momento della dimissione, poiché questo costituisce l’unico vero “ponte” tra ospedale e territorio nella fase della transition of care e facilita il mantenimento o la riformulazione più appropriata del trattamento farmacologico prescritto dal team ospedaliero al momento della dimissione. Senza una presa in carico iniziale e appropriata da parte dell’ospedale, le criticità precedentemente evidenziate in ambito territoriale potrebbero vanificare anche un trattamento correttamente prescritto e avviato nelle fasi immediatamente successive la dimissione93. Queste evidenze che derivano dai dati della pratica clinica potrebbero essere di grande supporto alle politiche regionali sia sanitarie che non sanitarie per implementare interventi mirati di audit clinico e organizzativo, volti a incrementare l’aderenza terapeutica e a ridurre quella variabilità ingiustificata tra le aree geografiche, tra i provider assistenziali e tra i gruppi di popolazione maggiormente svantaggiati87.

L’analisi del Social Media Listening

L’attività dell’Osservatorio, come già richiamato, ha previsto anche una analisi della comunicazione online che, attraverso l’enucleazione delle conversazioni ed i temi più presenti e le evidenze sui soggetti più attivi sulla rete, ha consentito di valutare quali siano i livelli di conoscenza diffusi sul tema e le maggiori difficoltà ed incertezze che emergono sia a livello di informazione che di comportamenti sanitari, contribuendo a fornire un quadro complessivo anche della qualità di informazione sul web nell’ambito delle dislipidemie.

I risultati dell’analisi della comunicazione sono riportati di seguito.

L’analisi del trend di Google: l’interesse nel tempo in Italia

Per l’analisi della dimensione quantitativa, sono state prese in considerazione le diverse frequenze di ricerca su Google dagli utenti in Italia nel periodo considerato relative alla dislipidemia. Com’è noto, Google Trend è uno strumento base per l’analisi delle ricerche effettuate su questo motore di ricerca, messo a disposizione di tutti gli utenti dalla stessa piattaforma. È evidente che si tratta di uno strumento molto grezzo, in grado di fornire solo una dimensione quantitativa di massima, delle ricerche per parola chiave, anche perché analizza un campione di ricerca che non rappresenta il volume effettivo della keyword analizzata ma la sua posizione in una scala di valori che va da 1 a 100. I limiti dell’utilizzo di questo strumento sono stati ampiamente analizzati in letteratura94-96, e il dato che qui si è scelto di riportare intende mettere in luce solo il maggiore utilizzo di un termine generico e di uso più comune, come “colesterolo” tra gli utenti che cercano informazioni sulla rete rispetto ad altri più specifici e tecnici, insieme ad una certa costanza delle ricerche su questo tema nell’arco di tempo considerato.

In primo luogo sono state prese in considerazione le ricerche partite utilizzando le parole “Dislipidemia”; “Ipercolesterolemia”; “Acido bempedoico” (Figura 4).

I numeri rappresentano l’interesse di ricerca rispetto al punto più alto del grafico in relazione al periodo indicato. Il valore 100 indica la maggiore frequenza di ricerca del termine, 50 indica la metà delle ricerche. Un punteggio pari a 0, invece, indica che non sono stati rilevati dati sufficienti per il termine.

Fonte: Google Trends

Figura 4. Frequenza di ricerca delle query “Dislipidemia”; “Ipercolesterolemia”; “Acido bempedoico” su Google dagli utenti in Italia dal 22/3/2020 al 22/3/2021 (numeri indice)

Tra le query considerate emerge, in generale, la prevalenza delle ricerche relative alla dislipidemia, con le maggiori frequenze di ricerca (100 nel grafico di Google Trends) registrate nell’autunno 2021. In generale, l’analisi del trend della ricerca sul browser Google delle keyword prese in considerazione mette in luce una continuità frastagliata nel tempo nella ricerca online, in cui sono presenti picchi diversificati corrispondenti in larga misura alle notizie online sul tema ed alle risposte sui social alle diverse informazioni. Ad esempio si rileva un certo aumento delle ricerche su acido bempedoico a partire dai primi mesi del 2021, in corrispondenza con notizie relative alla sua autorizzazione. Si tratta evidentemente di un argomento per addetti ai lavori, mentre i trend sulle parole chiave che definiscono la malattia presentano, pur nelle difformità di intensità di andamento, un interesse continuato nel tempo da parte degli utenti del web.

Ancor più evidente è l’attenzione diffusa nei confronti del tema generico “colesterolo”. L’andamento nel periodo delle ricerche che utilizzano questa parola chiave rileva la loro prevalenza netta rispetto a quelle che utilizzano i termini più specifici (Figura 5).

I numeri rappresentano l’interesse di ricerca rispetto al punto più alto del grafico in relazione al periodo indicato. Il valore 100 indica la maggiore frequenza di ricerca del termine, 50 indica la metà delle ricerche. Un punteggio pari a 0, invece, indica che non sono stati rilevati dati sufficienti per il termine.

Fonte: Google Trends

Figura 5. Frequenza di ricerca delle query “Dislipidemia”; “Ipercolesterolemia”; “Acido bempedoico”, “Colesterolo” e “Statine” su Google dagli utenti in Italia dal 22/3/2020 al 22/3/2021 (numeri indice)

In ogni caso, in tutte le tipologie di ricerca, eccezion fatta per quelle basate su “acido bempedoico”, appare evidente l’interesse per le caratteristiche della patologia che emerge anche dall’analisi di due altri aspetti: le parole associate alle tre principali nelle ricerche e le ricerche ulteriori associate a quella principale.

In entrambi i casi, le informazioni ricercate più frequentemente sono sulla patologia, le sue caratteristiche, i valori di riferimento e le terapie.

Simile la situazione considerando le altre parole chiave utilizzate per le ricerche su Google

Come già richiamato, diversa è la situazione relativa all’acido bempedoico. In questo caso, l’analisi delle query e delle ricerche associate mette in evidenza che si tratta di interessi conoscitivi più specifici, con ogni probabilità da parte di addetti ai lavori, interessati sia agli aspetti clinici che regolatori.

Una considerazione a parte merita l’analisi delle query e delle ricerche associate alla parola chiave “statine”. Si tratta anche in questo caso, come per quelle su “colesterolo”, di ricerche abbastanza continue nel tempo di osservazione, anche se di livello quantitativamente molto inferiore alle prime. Tuttavia, le parole e le ricerche associate fanno trasparire la presenza di preoccupazioni sui possibili effetti del loro uso continuato. Frequente è anche il richiamo a statine e prodotti naturali, ancora una volta indicatore indiretto del timore suscitato da questa tipologia di farmaci.

In sintesi, dall’analisi complessiva e di tipo relativo che è possibile fare attraverso questi indicatori generici di tipo quantitativo, che, è bene specificarlo, non necessariamente hanno delle implicazioni dirette per la pratica clinica e possono essere influenzati da moltissime variabili intervenienti, emerge comunque la presenza nella comunicazione online di un interesse per le patologie legate all’eccesso di colesterolo. In particolare, un’analisi ulteriore e più dettagliata relativa a 200.000 post raccolti in rete su diverse patologie, nel periodo Gennaio-Dicembre 2020, ha messo in evidenza un rilevante volume complessivo di mention che si riferiscono a patologie per le quali la dislipidemia costituisce un fattore di rischio, a partire dal più cliccato diabete. Meno frequenti le mention specifiche che si riferiscono specificamente ad ipercolesterolemia e dislipidemia (Figura 6).

Fonte: indagine Health Web Observatory 2021

Figura 6. Gli argomenti di salute e patologie più popolari nella rete (escludendo il COVID-19) (anno 2020)

La dimensione qualitativa: il Social Media Listening

L’articolazione delle fonti

A fronte di questo quadro generale, che mette già in luce un seppur generico interesse per il tema nella comunicazione sul web, l’analisi basata sullo strumento del Social Media Listening ha dato luogo ad un approfondimento qualitativo che ha consentito di valutare il volume e caratteristiche principali delle informazioni e degli scambi sul web relativi alla dislipidemia ed ai principali argomenti ad essa correlati. L’analisi ha riguardato sia i siti web che i principali canali di comunicazione digitale (Instagram, Facebook, Twitter, Youtube). La ricerca si è focalizzata prima di tutto sul volume delle mention, cioè il numero di volte in cui una determinata parola chiave viene citata nei post, nelle discussioni, negli scambi sulla rete, ma anche sulle tematiche maggiormente discusse, sul sentiment relativo a ciascun canale sui contenuti più performanti per interazione e sugli attori principali. Nel periodo di tempo considerato le mention rilevate sono state 13.762, per una media complessiva di 41 al giorno, di cui 6.262 sul web (45,5%) e 7.500 sui social network (54,5%). Si tratta di una presenza articolata per canale, con la prevalenza di mention su Instagram e su Twitter (rispettivamente con il 25,9% ed il 24,4% delle mention sul totale). Nella considerazione di questo dato si deve tener conto, tuttavia, che l’analisi su Facebook è limitata dalle regole sulla privacy e si concentra su profili pubblici; questo punto è da ritenersi anche un limite dello studio. L’articolazione dei post per tipologia di fonte fornisce già una importante indicazione: anche nel caso della comunicazione su un tema clinico, su cui, come ha evidenziato anche l’analisi dei dati di Google Trends, sono frequenti ricerche con scopi informativi, l’utilizzo dei social prevale su quello dei siti web.

Il sentiment

Un altro importante aspetto qualitativo dell’informazione che circola sul web sul tema articolato della dislipidemia concerne la connotazione positiva o negativa delle informazioni e degli scambi di opinioni. Anche su questo aspetto è importante sottolineare i limiti (sottolineati da diversi studi) nell’applicare gli strumenti di analisi del sentiment a dati relativi alle ricerche online in campo sociale e della salute e la necessità di affinare i metodi per ottenere risultati validi97-99. In questo caso è emerso che il sentiment attribuito alle principali keywords utilizzate tende ad essere più frequentemente neutro, ma le connotazioni negative rimangono rilevanti, soprattutto con riferimento al colesterolo ed alle dislipidemie come fattore di rischio per molte malattie non trasmissibili. Si tratta di un indicatore indiretto del carattere delle comunicazioni online su questo argomento, in cui è certamente presente, come già richiamato, un rilevante interesse informativo, che appare tuttavia spesso legato al timore per le malattie per le quali l’eccesso di colesterolo rappresenta un importante fattore di rischio. In tal senso è interessante notare la netta prevalenza del sentiment negativo nei post in cui si cita la dislipidemia (Figura 7).

Fonte: indagine Health Web Observatory 2021

Figura 7. Il sentiment prevalente nelle menzioni relative alle principali keyword utilizzate e relative alla dislipidemia (val. %) (N=13.762)

Soggetti e temi dominanti della comunicazione online sulla dislipidemia

Per entrare nel merito delle caratteristiche di questa comunicazione, le mention analizzate sono state distinte considerando sia i temi principali che i soggetti più attivi, anche con riferimento alle diverse tipologie di canale.

Una particolare attenzione merita l’analisi degli argomenti su cui si articola questa comunicazione (Figura 8).

Fonte: indagine Health Web Observatory 2021

Figura 8. Classificazione delle mention per principali tipologie di argomento (Aprile 2020-Marzo 2021) (N=13.762) (val.%)

Si tratta evidentemente di un tema dalle molte articolazioni, in cui prevalgono però due dimensioni importanti. In primo luogo, le più diffuse sono le comunicazioni che, a vario titolo e con varie sfumature (si parla di cibi, di diete specifiche, di scelte alimentari, ecc.), vertono sulla nutrizione come strumento per il controllo della dislipidemia. L’altro tema che emerge, legato anche al significativo ruolo dei singoli cittadini come soggetti attivi della comunicazione sul tema, è il racconto di vita quotidiana in cui è presente, anche qui con sfumature molto variabili, la descrizione del peso di questo fattore di rischio di malattia sulle condizioni di salute e sulla qualità della vita. L’analisi dettagliata degli argomenti può essere quindi sintetizzata in tre macro categorie, con la parte maggioritaria dei post relativi a temi di nutrizione come strumento per combattere e controllare la dislipidemia (51%), poco meno di un terzo (28%) alla narrazione dell’impatto della malattia sulla vita di ogni giorno ed il 21% relativo a news su sanità e sui trattamenti legati al tema della dislipidemia e del colesterolo. Le caratteristiche dei contenuti rilevati sono strettamente correlate all’articolazione delle categorie di soggetti attivi sulla rete sul tema. La quota maggiore di mention analizzate (38%) fanno capo ai siti di stampa generalista, segno del peso delle news e delle informazioni su questa comunicazione. Una parte importante di soggetti attivi appartiene alla categoria dei cittadini comuni, a cui fanno capo il 28% dei post generati, mentre alle aziende farmaceutiche e di prodotti sanitari fa capo poco meno del 10%, mentre il 7% agli operatori sanitari (medici, fisioterapisti, nutrizionisti). Decisamente più ridotto è il contributo di altri soggetti (Figura 9).

Fonte: indagine Health Web Observatory 2021

Figura 9. Mention per categorie di utenti (val. %)(N=13.762)

Le differenze tra i canali

Le diverse caratteristiche dei canali impattano naturalmente sul diverso peso assunto dai soggetti nella comunicazione analizzata. Mentre sul web, evidentemente, sono i siti di informazione ad assumere il peso prevalente, insieme a quelli di soggetti istituzionali, su Instagram sono più attivi gli influencer insieme a farmacie e professionisti sanitari. Su Twitter prevalgono dunque i singoli cittadini ma anche le associazioni di pazienti (Figura 10).

Fonte: indagine Health Web Observatory 2021

Figura 10. Mention per canale e per categorie di utenti (val. %)

Altrettanto dipendente dalle caratteristiche del canale è l’articolazione dei temi prevalenti. L’insieme delle mention è stato quindi analizzato considerando la distribuzione degli argomenti tra i diversi canali per dar conto di una sorta di possibile “specializzazione” tematica di ciascun canale (Figura 11).

Fonte: indagine Health Web Observatory 2021

Figura 11. Dove se ne parla. Mention argomento e tipologia di canale (val. %)

Il tema dell’attività fisica e dello stile di vita, come strumento di prevenzione delle patologie per cui la dislipidemia costituisce un fattore di rischio, è stato rilevato in misura più frequente sul web, mentre le informazioni e le comunicazioni su check up, diagnosi e servizi di telemedicina per prevenzione e controllo del colesterolo sono presenti su Instagram e Twitter. Su Instagram, poi, si ritrova la ampia maggioranza (75%) di mention su dispositivi medici e nutraceutici per il controllo di livelli glicemia, colesterolo, insieme alle informazioni commerciali su strumenti e terapie per il controllo colesterolo. Mention su eventi di sensibilizzazione sul tema delle patologie cardiovascolari come campagne di screening su patologie cardiovascolari e prevenzione o le giornate dedicate, ad es. la Giornata del Cuore, insieme a informazione e formazione scientifica su linee guida, raccomandazioni e pratica clinica, sono invece prevalenti sul web che rappresenta anche un importante contenitore di consultazione per News sanità e trattamenti legati al tema del colesterolo. Più in generale, molte delle informazioni più tecniche relative alle dislipidemie sono rilevate in misura più rilevante sui siti e sui blog (le tematiche relative alla nutrizione, le richieste di informazioni sulla gestione della patologia, le informazioni sul colesterolo come fattore di rischio e sul COVID-19 e le patologie concomitanti). Gli aspetti più personali di vissuto della malattia, ma anche molte news, anche specialistiche, come quelle sull’acido bempedoico, sono più frequenti su Twitter, mentre i temi della nutrizione, cibi ed alimentazione contro le dislipidemie e molte informazioni di tipo commerciale, come quelle relative a dispositivi medici e nutraceutici per il controllo dei livelli di glicemia, colesterolo e per la dieta, sono prevalenti su Instagram. Sempre considerando il campione complessivo degli oltre 13.000 post analizzati in questo studio da Aprile 2020 a Marzo 2021, quelli più significativi e con un maggiore potenziale di diffusione dei diversi canali rispecchiano questa articolazione di fondo dei temi, nell’ambito della già richiamata prevalenza trasversale dei temi inerente la nutrizione ed i fattori di rischio collegati. Se si considera il web, uno dei post con maggiore reach è quello di un soggetto commerciale che propone informazioni sul tema della prevenzione basata sulla alimentazione.

Anche su Instagram troviamo un post con una ampia diffusione che fa capo ad una professionista che dà consigli di nutrizione.

Si tratta di un canale dove per definizione sono attivi ed hanno peso gli influencer come nel caso di quello di un atleta, sempre attinenti a consigli sugli alimenti salutari.

I post più significativi dal punto di vista della utenza e della diffusione potenziale su Twitter sono invece news, ma di nuovo correlate a nutrizione e colesterolo.

Uno dei post a più ampia diffusione di Facebook sottolinea ancora una volta i benefici di un alimento naturale.

Su questo canale si ritrovano però anche news ed informazioni, sulle pagine di quotidiani ad esempio, come un post su una campagna di prevenzione contro il rischio cardiovascolare.

Infine, su YouTube, su cui sono stati rilevati il numero minore di mention, il reach maggiore è di un filmato di un’azienda del farmaco che dà informazioni terapeutiche.

Nonostante i limiti in termini di significatività statistica, il campione degli oltre 13.000 post analizzati ha consentito di evidenziare i temi ed i soggetti che hanno avuto un ruolo da protagonisti nel periodo esaminato nella comunicazione online sul tema analizzato, ha messo in luce le diverse specificità dei canali e le relative caratteristiche prevalenti, fornendo un quadro interessante sulle specificità ed i limiti di quello che circola in rete sul tema del colesterolo e delle dislipidemie.

Conclusioni

Le conclusioni emerse dall’Osservatorio riguardano sia le riflessioni sviluppate dal Board Tecnico Scientifico sia gli esiti del Social Media Listening. Da quest’ultimo sembra emergere in particolare una comunicazione sulla dislipidemia in cui, al timore che si concentra sui suoi effetti come fattore di rischio di molte patologie importanti, si intreccia una idea di possibile intervento di controllo che si affida soprattutto alla nutrizione ed ai rimedi naturali. Si assiste ad una sorta di corto circuito tra una percezione di pericolosità diffusa (è un fattore di rischio per molte malattie che a loro volta suscitano paura e preoccupazione) ed una sostanziale sottovalutazione dell’importanza di un approccio terapeutico mirato ed efficace. Con ogni probabilità, questa radice culturale può contribuire a spiegare i problemi di scarsa aderenza terapeutica e, più in generale, anche la tendenza a optare per soluzioni diverse come quelle legate all’alimentazione o a fitoterapici e prodotti della cosiddetta medicina naturale. Il risultato altamente problematico è quello di non garantire nei fatti, anche in quote importanti di pazienti, il controllo di un fattore di rischio così fortemente impattante, anche in termini di mortalità, che pure avrebbe tutte le possibilità di essere trattato efficacemente grazie all’ampia disponibilità di presidi terapeutici anche di avanguardia modulabili sulle diverse esigenze dei pazienti.

Sulla base delle considerazioni svolte e dei dati descritti, si comprende come l’ipercolesterolemia meriti certamente maggiore attenzione nella pianificazione degli interventi sulla salute sia a livello nazionale che a livello regionale. In questo scenario potrebbero essere prese in considerazione alcune azioni strategiche che vengono di seguito indicate con lo scopo di far crescere l’attenzione verso l’ipercolesterolemia, e in particolare verso l’ipercolesterolemia familiare, al fine di identificare e trattare in modo appropriato questa condizione.

Le proposte si possono sintetizzare come segue:

• inserimento obbligatorio e automatico del valore calcolato del colesterolo C-LDL nel referto di laboratorio ogni volta che vengano richiesti e refertati i valori di colesterolo totale, HDL e trigliceridi; La diagnostica di Laboratorio deve essere effettuata dopo 12 ore reali di digiuno. Qualora il C-LDL venga calcolato utilizzando la formula di Friedewald (FF), si deve considerare che questa non potrà essere utilizzata in presenza di valori di trigliceridemia >400 mg/dl e si dovrà pertanto procedere al dosaggio diretto del C-LDL;

• adozione nei laboratori d’analisi di modalità di refertazione “alert con nota” tali da richiamare l’attenzione dei medici sui valori elevati di colesterolo (per adulti: colesterolo totale >310 mg/dl; colesterolo LDL > 190 mg/dl; per bambini: colesterolo totale > 240 mg/dl, colesterolo LDL >130 mg/dl) (es. “dato che necessita di ulteriori approfondimenti clinico/diagnostici “)13;

• Implementazione di screening appropriati, anche attraverso la sensibilizzazione dei MMG, per una prioritaria identificazione dei pazienti con ipercolesterolemia familiare tra i consanguinei di 1° grado di pazienti che hanno avuto eventi CV precoci e nei soggetti con valori elevati di colesterolo totale (>310 mg/dl e/o LDL (>190 mg/dl);

• favorire la diffusione di sistemi informatizzati per la gestione clinica dei fattori di rischio;

• identificazione e implementazione degli obiettivi terapeutici nei pazienti affetti da ipercolesterolemia in relazione al proprio livello di rischio cardiovascolare;

• sensibilizzazione dei MMG verso l’obiettivo di ottenere e mantenere nei pazienti in prevenzione secondaria livelli di C-LDL inferiori a 70 mg/dl.

Una profonda riflessione merita, più in generale, il tema dell’aderenza alla terapia ipolipemizzante, che è il punto nodale dell’Osservatorio.

Le motivazioni alla base della mancata o ridotta aderenza alla terapia ipolipemizzante sono molteplici e in molti casi dipendenti dal paziente. Queste includono la semplice dimenticanza, un atteggiamento negativo verso i farmaci, la frustrazione con scarse risposte terapeutiche, e le credenze preconcette in materia di salute e farmaci. Inoltre, una scarsa comprensione dei vantaggi della terapia, tra cui la mancanza di comprensione del beneficio del farmaco e la paura di eventi avversi correlati al farmaco, possono ulteriormente contribuire alla non adesione del paziente. È tuttavia indubitabile che la “inerzia terapeutica“ da parte dei clinici svolga un ruolo importante nel problema della non-aderenza.

Non esistono soluzioni semplici per motivare i pazienti a una maggiore aderenza a lungo termine alla terapia ipolipemizzante. Allo stato attuale delle nostre conoscenze le soluzioni più ragionevoli impongono che il medico e il paziente devono costituire più efficacemente un’alleanza per comunicare l’importanza del trattamento ipolipemizzante, stabilire gli obiettivi per la terapia e individuare fin dall’inizio potenziali fattori di non-aderenza. In questo contesto anche la scelta del farmaco che consenta di ottenere il più rapidamente possibile e con maggiore probabilità il “successo terapeutico” può rappresentare una utile strategia per migliorare l’aderenza individuale alla terapia ipolipemizzante.

Queste riflessioni possono essere adeguatamente accompagnate da alcuni messaggi chiave, sinterizzati di seguito:

• una percentuale elevata di pazienti (25-50%) risulta non aderente alla terapia ipolipemizzante con statine. La mancata aderenza alla terapia con statine è già evidente nei primi mesi dall’inizio del trattamento e aumenta nel corso degli anni;

• la non aderenza alla terapia con statine limita in modo rilevante l’efficacia della prevenzione cardiovascolare. Migliorare l’aderenza alle statine del 50% (dal 50% al 75%) sarebbe di per sé in grado di ridurre del doppio i nuovi decessi legati alle complicanze cardiovascolari;

• le cause della mancata aderenza sono molteplici ed implicano la responsabilità del medico, del paziente e del sistema sanitario;

• molte evidenze suggeriscono che anche l’efficacia della terapia ipolipemizzante possa influenzare in modo significativo l’aderenza alla terapia. La scelta di statine ad elevata potenza può migliorare la persistenza dei pazienti in terapia e ridurre i costi e l’impegno del trattamento.

L’analisi e gli approfondimenti fin qui esposti trovano un’appropriata integrazione nelle riflessioni, che provengono dal “punto di osservazione” dei pazienti, rappresentato nel Board Tecnico Scientifico dalla Responsabile Coordinamento Nazionale delle Associazioni dei Malati Cronici e rari, Dott.ssa Tiziana Nicoletti, e che trovano un’ampia analogia con quanto rilevato nell’analisi del web e dunque nella vita di ogni giorno.

Una prima considerazione riguarda il fatto che le persone conoscono più frequentemente il termine ipercolesterolemia piuttosto che quello di dislipidemia con i rischi e le conseguenze ad essa correlate. Ciò è spesso dovuto ad una carenza di informazione/formazione del paziente da parte del medico, sia di medicina generale che specialista. Ciò introduce un elemento di complicazione sia nel percorso diagnostico che nella gestione della terapia, nonché nella prevenzione di eventuali eventi avversi. Da qui emerge l’esigenza di un processo culturale volto a promuovere, in primis e ad ogni livello, l’informazione sulla patologia e i rischi ad essa correlati, sul percorso di diagnosi e gestione della malattia, evidenziato anche dalla tipologia di ricerche effettuate in rete dagli healthnauti. Questo processo culturale dovrebbe proseguire, una volta giunti a diagnosi, con una offerta informativa rivolta ai pazienti circa gli specialisti ed i centri ai quali rivolgersi, ma anche con corsi di formazione su come affrontare quotidianamente complicanze e affetti avversi, con programmi di self management, ovvero improntati all’educazione all’autogestione di alcuni aspetti della propria patologia e che implementino l’aderenza terapeutica; tutto ciò andrebbe nella direzione di un concreto supporto dedicato al paziente e rivolto specificamente ad aumentare la conformità alle raccomandazioni del medico riguardo ai tempi, alle dosi, alla frequenza nell’assunzione del farmaco e ai controlli da effettuare periodicamente.

Si conferma perciò la centralità della consapevolezza del paziente circa la patologia dislipidemica, la adeguata percezione del rischio e il significato della sua gestione appropriata e responsabile per evitare le complicanze; questo è possibile solo se il paziente riceve le giuste informazioni, anche quelle inerenti le corrette abitudini alimentari e un sano stile di vita, ed è reso partecipe del suo percorso di cura. Il paziente informato e consapevole della sua malattia, che partecipa e viene coinvolto attivamente, è un paziente che aderisce maggiormente alla terapia suggerita e condivisa. Il medico deve fare in modo che il paziente si renda conto che, anche di fronte ad una patologia cronica, può e deve migliorare la qualità di vita. Come già più volte richiamato, la scarsa aderenza terapeutica, particolarmente rilevante tra gli anziani e in crescita durante la pandemia, rappresenta ancora oggi infatti la principale causa di non efficacia delle terapie farmacologiche di lungo termine, ha un forte impatto negativo sull’esito delle cure e sui costi assistenziali, è associata ad un aumento delle ospedalizzazioni, così come ad un aumento del rischio di complicanze, della comparsa di eventi avversi derivanti dall’interruzione della terapia, ed in ultimo dall’aumento dei decessi.

Per l’OMS la non aderenza ai farmaci è un fenomeno complesso con ricadute importanti sulla salute dei pazienti e sulla spesa sanitaria diretta. L’OMS ha stimato che nei Paesi sviluppati non più del 50% dei pazienti con malattie croniche rispetta le terapie assegnate (sia nel dosaggio che nella durata) e che il trattamento farmacologico nella terapia cronica viene rispettato solo tra il 43% e il 78%.

Anche il Piano Nazionale sulle cronicità sottolinea l’importanza delle “Terapie e aderenza terapeutica”. Il Piano Nazionale chiarisce bene che, oltre a intervenire sull’appropriatezza prescrittiva, sulla quale le Regioni si stanno particolarmente concentrando, è necessario generare soluzioni organizzative che favoriscano l’adesione alle prescrizioni, con particolare riferimento alle persone che assumono molti farmaci (politerapie), assicurando equità di accesso. Dalla ricerca, alle soluzioni tecnologiche, dalla formazione alla informazione e formazione di cittadini e operatori sanitari, le linee sono tracciate.

Finanziamento

Questo studio è stato realizzato con il contributo incondizionato di Daiichi Sankyo.

Conflitto di interesse

Gli Autori dichiarano di non avere conflitti di interesse relativi allo studio.

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